Eric J. Hobsbawm, lo storico inglese che ha curato, per la Rizzoli, l'introduzione alla ristampa del Manifesto del partito comunista di Marx ed Hengels, non ha dubbi: il Manifesto è per lo più superato nei contenuti, ma conserva una "forza irresistibile come testo letterario", ed un "vigore quasi biblico" come "esempio di retorica politica", anzi è un "opuscolo stupefacente" per "l'energia stilistica e intellettuale", per "la concentrata brevità" con i suoi paragrafi brevi, apodittici, ( di cui ci riporta anche il numero di righe). Quanto alla convinzione di fondo che lo anima, per Hobsbawm, è "affascinante" ma evidentemente infondata se ravvisa "il punto di forza più durevole" del testo nell'"ottimismo" degli autori, poi subito definito "politicamente irrealistico". Riconosce loro almeno in seguito "l'intuizione, proprio all'inizio della marcia trionfale del capitalismo, che questo modo di produzione non è permanente e stabile, […] ma una fase temporanea nella storia dell'umanità e, come le precedenti, destinata a essere soppiantata da un altro tipo di società ", sempre che non sprofondi nella reciproca distruzione delle classi antagoniste. Acuti inoltre nel comprendere che lo sviluppo capitalistico ha tendenze storiche di lungo periodo.
Il resto? è obsoleto in molte sue parti: le tattiche consigliate; i protagonisti politici, che nomina (zar, Guizot, Metternich) morti; il linguaggio mutato nel tempo! Limiti che gli stessi autori, pare abbiano riconosciuto subito, ma non si capisce poi perché, in seguito, si siano impegnati a promuovere e a collaborare alle ristampe successive, senza apporre modifiche rilevanti e abbiano addirittura continuato a considerarlo "un'importante esposizione dell'analisi che distingueva il loro cammino da tutti gli altri progetti per la creazione di una società migliore", insomma uno schema essenziale della loro visione storica che in seguito si sarebbe soltanto arricchito, e non modificato.
Hobsbawm riconosce però al testo qualità profetiche, infatti ritiene che se è del tutto inefficiente a dare un quadro chiaro di come il mondo fosse stato trasformato dal capitalismo nel 1948, è però validissimo nel prevedere come il mondo si sarebbe trasformato sino ai nostri giorni, risultando una "concisa caratterizzazione del capitalismo alla fine del ventesimo secolo".
E su un punto Hobsbawm è categorico: il Manifesto è fallimentare in modo "impressionante" nella previsione della caduta della borghesia ed il conseguente trionfo del proletariato (come è riscontrabile da tutti), e sbaglia anche nell'individuare soltanto in questo la classe rivoluzionaria destinata a rovesciarla. Hobsbawm non prende minimamente in considerazione la possibilità che quanto previsto dal Manifesto, date proprio le lunghe tendende dello sviluppo capitalistico, e le ovvie contingenze sfavorevoli in cui si trova a sopravvivere il proletariato, senza dominio politico effettivo, e non spalleggiato adeguatamente neppure dai sindacati (spesso mediatori ottimizzanti per ingurgitare rospi giganti), possa proiettarsi ulteriormente nel futuro. Anche perché nessuno finora ha sufficientemente chiarito perché mai, mentre la borghesia per affermarsi abbia dovuto impiegare diversi secoli, il proletariato dovrebbe maturare la sua crescita in tempi brevi. E non potrebbe essere questa accelerazione di tempi la causa, unitamente a distorte se non orrende applicazioni pratiche di una corretta teoria, alla base di tanti insuccessi registrati in questo secolo (per non parlare delle ovvie trame di resistenza estrema della controparte)? E tanto più nel lontano 1848? Ma mentre a Marx ed Engels qualche sopravalutazione (parlano loro espressamente di "pochi anni"), dovuta al forte entusiasmo che li muoveva, pur in un'analisi scientifica, può essere perdonata, oggi la permanenza di questa credenza negli storici risulta inaccettabile.
Comunque Hobsbawm è più propenso a credere a forze autodistruttive insite nel sistema, che ad un certo punto imploderanno travolgendolo. Quale la società post-capitalistica? Non si pronuncia, ma riconosce alfine che un ruolo determinante spetterà all'azione politica, indispensabile per dare forma al mutamento storico.
Ora, quale la lezione che si può trarre da una siffatta presentazione e da certa pubblicistica attuale, encomiastica purché liquidatoria, in relazione ai 150 anni del Manifesto di Marx ed Hengels?
Una sola. La borghesia ha trionfato completamente; il proletariato è in ginocchio per sempre; Marx ed Hengels hanno fallito nelle previsioni, sono superati; evviva loro dunque e siano celebrati! (Come del resto altri classici, o autori "di sinistra" contemporanei del tutto innocui).
Ma certa arrendevolezza nell'ammettere la stupefacente forza previsionale del Manifesto riguardo all'"orrore economico di oggi", unitamente a certa frettolosità nel liquidare la praticabilità delle sue teorie, non solo insospettisce, ma fa intravedere nell'intera operazione, un'ansia di fondo. L'ansia rimanda alla preoccupazione. Questa alla paura. La paura che il Manifesto possa essere una mina vagante inesplosa, da trattare con cautela e tutti gli onori per esorcizzarne il potere deflagrante?
Non avrebbe dunque torto Edoardo Sanguineti quando nelle 7 tesi introduttive al Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels (edito da Meltemi), ne parla, parafrasando il ben noto incipit ed estendendo il fenomeno nello spazio, come di uno spettro che si aggira non solo in Europa, ma nel mondo. Uno spettro che, bandito (perché troppo ingombrante ed impegnativo) dai luoghi che più gli sarebbero congeniali, è coccolato invece dalla borghesia che, tentando di legittimare una filosofia che miri al mantenimento dello stato di cose presenti, se ne fa una gloria del suo dominio presente.
Sanguineti rilancia non solo il profetismo del testo, ma anche l'insito necessitante determinismo oggi negato da tutti, e auspica la ripresa, pur tra le righe di una prosa spesso foscamente ironica, di una rivoluzione contro il Capitale.
Sogno non impossibile, seoppure molto difficile oggi. Quando si danno per morte le ideologie, invece di ammettere che c'è solo l'impossibilità di frequentarle, essendo diventate dei tabù. Quando la politica sembra ridursi sempre più spesso a pura gestione dell'esistente, in uno stallo progettuale infinito. Quando si disdegna persino l'analisi dei rapporti socioeconomici tra gli individui e si privilegia un linguaggio generico, che rimanda a certo trasformismo imperante che, meglio forse, con un neologismo, si potrebbe dire conciliantismo. Tant'è che, dice espressamente e provocatoriamente Sanguineti , se una sinistra ancora c'è, questa viene frequentatata dal clero pietoso verso i derelitti e smanioso di tornare al buon tempo antico, idilliaco però, sempre e solo, per pochi.
Quello di cui si ha invece bisogno, è una democrazia vera che non può coincidere con quella borghese (monca, falsa, apparente, solo per una minoranza), dove non c'è altro vincolo che quello tra sfruttato e sfruttatore, dove la riduzione a merce non concerne soltanto l'operaio in fabbrica, ma coinvolge sempre più fasce (lo si voglia riconoscere o no). Una democrazia sempre più seriamente compromessa dalle multinazionali, che superando la "unilateralità e la ristrettezza nazionale" di cui già parla Marx, realizzeranno per i continenti quanto già avvenuto per la nascita delle nazioni. Così che si avrà alla fine un solo mondo, a immagine e somiglianza della borghesia.
A ribadire l'attualità del testo, Sanguineti più oltre ricorda che "la liquidazione dei valori trapassati", come già al tempo di Marx, non è una minaccia proletaria, ma una costante pratica capitalistica, tant'è che gli stessi ecclesiastici additano non certo nei proletari, ma nella globalizzazione imperialistica la responsabilità dell'abbandono delle più insigni tra le grandi "eterne verità".
Spetta al proletario organizzarsi, gradualmente, nella prospettiva di una classe che abolisca le altre classi e realizzi infine il progetto di "un'associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno sia la condizione per il libero sviluppo di tutti".
Un testo dunque tutto da salvare per Sanguineti, anche nell'ultima parte dove Marx ed Engels definiscono i vari socialismi (reazionario, conservatore borghese, e critico-utopistico). Non c'è la precoce obsolescenza registrata da altri, ma anzi "acume classificatorio". È forse sparito il socialismo "mezzo geremiade e mezzo pasquinata" che rimprovera la borghesia di aver prodotto non un proletariato, ma giusto un proletariato rivoluzionario? È stato forse superato certo socialismo sacro, dove l'ascetismo cristiano si spolvera di socialismo? E come non notare ancora il "vero" socialismo, particolarità tedesca prima, internazionale oggi, col suo piagnisteo mosso alla difesa dei valori del genere umano? (E si badi bene non proletario, non appartenente ad una classe: concetti questi che insieme a quelli della lotta delle classi sono stati del tutto rimossi). O il recente "socialismo borghese" per il quale "i borghesi sono borghesi nell'interesse della classe operaia": posizione tanto illogica quanto ampiamente diffusa. E non c'è più forse l'atteggiamento "critico-utopistico"? di chi si impegna nella difesa umanitaria della "classe che soffre più di ogni altra"? Legittimo in passato, data l'inadeguatezza dello sviluppo storico del capitalismo, ma oggi del tutto obsoleto.
Quale la conclusione? La borghesia ha trionfato e ancora trionferà, ma il proletariato mantiene integra la sua potenzialità per una autentica rivoluzione comunista, "quale è praticabile, nella pienezza dei tempi della globalizzazione imperialistica". Sempre che la politica esca dall'empasse di fondo attuale, nonostante la facciata progressista, e viva un ruolo creativo e fattivo (si potrebbe aggiungere).