Quando intorno tutto gira in senso opposto ai nostri ideali a cui non sappiamo né vogliamo rinunciare e continuiamo a cercarli (dov'è il rispetto? la giustizia? l'onestà? l'amore? la pace?) in un inseguimento affannoso, controcorrente, tra ipocrisie, abusi, corruzionì, soprusi, mistificazioni, impunità garantite, è facile essere colti dalle vertigini e affidarsi al mìraggio di un sogno come estrema arma di difesa, da affidare alla parola anche nella sua semplicità più nuda.
È quello che avviene, nel poemetto Lettera a Noè, ad Artem Haruthyunyan, uno dei poeti presenti nella raccolta dedicata all'Armenia, curata da Marco Bais e Anna Sirinian.
Un testo, proposto qui per la prima volta in italiano, in traduzione integrale, che si impone subito per il suo spirito utopistico, sotteso da genuino impegno civile. E che sorprende piacevolmente in una letteratura che, pur discendendo da quella orientale (o caucasica) di tipo engagée, oggi, con le forzature esperenziali dei legami sovìetici, presenta più una linea intimista, vagamente crepuscolare. Di sospensione. Una poesia che si rinchiude un po' autisticamente nei sentimenti come in un bozzolo, in attesa dì una netta definizione, di diventare più incisiva azione. È il caso, per rimanere a questa raccolta, di Artak Hambardzumyan, che in mancanza, su questa terra, "cupa notte", di uno "specchio non ancora infranto", si nutre e stordisce parlando d'amore tra ninfe, capelli pettinati dalle stelle, o bagnati dalle sue arance, voci che sciolgono fiabe, anime ammantate di neve. E spera di poter "da cuori senza amore, spremere, risvegliare, restituire amore". Perché "Mai si invecchia amando. Mai".
Un invito si direbbe accolto da Sona Antonyan che, tra ricordi e aspettative personali, coltiva le emozioni perché possa il suo spirito fiorire e concederle "il sole promesso da tempo,/ e la bacchetta magica della fiaba", in una nascita al tempo giusto. E al modo giusto, secondo i propri bisogni, potrebbe aggiungere Manase che, alla ricerca di un suo ruolo preciso, poeta suo malgrado, "poeta , sul quale indelebile/è il disonore della sua arte, come un testimone-/cupo" nei versi qui proposti, in correlazione intellettualmente emotiva con Ovidio, si macera nell'impellenza del dire: "io sto poetando di nuovo e queste righe lo testimoniano-ecco qui", nonostante i propositi di "aprire le vele solo a ragion veduta". Anche Hrachya Saruchan sembra rifugiarsi in sé, riscattando temi oleograficamente nostalgici, legati alla sua terra, "destino irripetibile", nello sforzo di vincere "gli scivoloni della storia universale" che hanno provato a seppellire "diabolicamente" i suoi "canti aperti" in "ferite chiuse".
Più eversivamente determinati appaiono Rosa Hovhannisyan e Henrik Edoyan. L'una che sì propone e impone di essere "come una rosa dissidente, come una rosa che la pensa diversamente" per realizzare finalmente la creazione di una rosa nuova: una rosa senza spine. L'altro che scava sì "la terra del passato" ma solo per "passare al di là della vetrina dei giomi" e fare della poesia "il legame/ tra due passanti sconosciuti,/ che forse non si rivedranno più", con vigile attenzione alla realtà che lo circonda, tant'è che se "l'albero di Ezra Pound" cresce in lui, squarciandogli il petto, le sue radici si conficcano nella "terra", e "le sue voci giungono da fuori".
Quel "fuori" che è la preoccupazione costante invece di Artem Haruthyunyan, che palpita tutto d'attualità. La toccante Lettera a Noè è la cronaca di un incontro, o meglio la visione da bisogno di un incontro col patriarca, al quale Haruthyunyan palesa le sue angosce più profonde per come va il mondo, gli comunica la necessità di un nuovo Diluvio risolutore e che dia il via a quello del Nuovo Amore, prospetta delle soluzioni (nell'allegoria del testo/zattera /nuovo continente) con convincimento ed adesione tali che in alcuni scorci Noè coincide con lui. È a se stesso che parla, e Haruthyunyan si staglia in alcuni frangenti come ultimo uomo giusto dei nostri tempi, disposto anche ad immolarsi/farsi parola al meglio, per salvare l'umanità. E in quest'ottica il poemetto ha come proemio la poesia Negoziati che, partendo dalla constatazione scandalosa di stolti inconcludenti negoziati dell'ultimo minuto, (quando i danni sono irreparabili), e vomitata, quasi, in un primo lunghissimo verso (il più lungo tra quelli che ci è dato riscontrare) come se il poeta non potesse trattenerne oltre il senso ("hanno cominciato a negoziare qualche minuto prima del giudizio universale"), ne introduce in nuce alcuni temi essenziali. Innanzitutto la mancanza di vera libertà per un potere politico falso e "pugno" oppressivo per i popoli costretti a cantare ufficialmente "l'osanna della libertà" mentre invece tacitamente "soffiano la cornamusa della schiavitù" all'orecchio dei più affinati all'ascolto. Poi il genocidio perpetrato contro gli Armeni in più circostanze, (a partire dai massacri del sultano turco Abdul-Hamid Il sino a quelli dei "Giovani Turchi" e della Prima guerra mondiale) e ancora oggi non ufficialmente riconosciuto.
Segue la corruzione per la mafia imperante e per una polizia dall'"interminabile urlo", "per crimini da lei stessa organizzati". Infine la conseguente paralisi dell'azione per alternative senza sbocco. Chi fugge infatti va incontro al diluvio come annientamento totale; chi resta è "insabbiato" ("è subito coperto dal terremoto,/con sabbia e ghiaia del criminale/che si ammanta dell'autorità govemativa") e chi muore trova un "cielo vuoto", dove Haruthyunyan cerca comunque "una mano senza posa" e un "nuovo fuoco" per aiutare chi soffre e non ha uno scopo su questa terra. Sfilano giovani senza casa e famiglia; vecchie "che vagano per le strade cercando senza sosta qualcosa da bruciare", spente più nei loro sogni che dal freddo; sguardi muti annientati dall'alcolismo. Tutte circostanze insostenibili per l'animo sensibile del poeta che, esasperato anche da mass media inattendibili, chiede tregua.
E "lascia ch'io dorma accanto ai giornali appena portati,/contraddittori/lascia che abbia la visione/ che sul pianeta morente/ da tanto non c'è una casa in rovina/ e le parti che negoziano, adesso/ si sono avvicinate" sono infatti gli ultimi versi di Negoziati. Poi tutto è sogno. Quello che ci regala col suo poemetto Lettera a Noè o incremento della speranza. Dal titolo eloquente: non fuga dalla realtà, ma tuffo in un passato primordiale per rigenerarsi e trovare le forze da trasmettere per aumentare le possibilità di una riscossa esistenziale, non per lui, ma per gli altri: "Noè, questa zattera non è nostra, ma di tutti,/ questo tipo di zattera è un segno d'amore, raccolto, vigoroso". Un "incremento della speranza" appunto, costruito in 10 sequenze (quante le strofe più la premessa), rispettando le modalità del sogno.
Niente ordine logico preciso: il diluvio in atto nella premessa, sembra ancora atteso nella VII strofa, e l'Arca/ zattera pur frantumata, come porcellana, svolge sempre, in seguito, il suo viaggio, nel Diluvio atomico. Assente anche l'ordine cronologico. Il tempo, seppure predilige il presente con proiezioni nel futuro, risulta quasi ottuso da accadimenti plurimi, dislocati variamente nello spazio, e dove "oggi" vale "ieri" ("oggi è capitata una storia strana:/ieri mi ha fatto visita Noè in persona") e l'avverbio "ora" incalza però concitato a dirci l'ansia, l'insostenibilità di quanto registra, tra veglia e sonno, l'io narrante. Che, talora multiplo ("Noè, tra coloro che costruivano la zattera ho visto/ dei miei amici armeni,/ora combattono in Artsach,/ mi pare che la zattera siamo noi, che stiamo qui "), o è unico passeggero dell'arca, o ne è sulla soglia, oppure la spinge con le robuste spalle, quando non è in volo biblico, o in scorci di un deludente soggiorno americano. E tra riflessioni e visioni ci dipinge il mondo in malora. Ingiusto, in quanto, tra l'altro, ignora l'Armenia terra antica, tenace, solo perché non ha petrolio ("quando questo è la pietra angolare per gli adiposi boss/ delle compagnie petrolifere che mangiano al ristorante cinese"); indifferente, tant'è che una donna turca soffre per il proprio gatto ferito e ignora i due milioni di vittime del genocidio; asservito al denaro, considerato qui invece "verme di tomba" in un verso, che, unico tra tutti, a evidenziare la repulsione dell'autore sull'argomento, è come espulso dal naturale inizio, e proiettato verso il centro della pagina. Un mondo consumistico al massimo (a Broadway si farebbe business persino dell'acqua del diluvio, in piccole bottiglie, come "reliquia di una favola evangelica"). Un mondo dedito alla guerra contro nazioni inermi: "vedo in lontananza la marcia ritmata di popoli armati,/nella festa da ballo fatta con le ossa delle piccole nazioni/", e più oltre: "vedo in lontananza navi da guerra,/sono i figli viziati della grande potenza /e sono capaci di qualsiasi cosa", con esplicito riferimento all'America, spesso bersaglio anche ironico di questi versi, nei suoi miti. Anche nel corpo accademico per i suoi pomposi ("alteri") professori, "per i quali non esiste altro al mondo/ tranne l'antica letteratura inglese", mentre il poeta, "circondato da libri sui santi inglesi e da preghiere e suppliche in caratteri latini" ne sente tutta l'inefficacia morale e sociale, quando afferma "assai passivamente agiscono fino ad oggi". Un mondo, insomma, come ripete più di una volta, di pazzi che hanno cavalcato la catastrofe del Diluvio ("sellato le acque"), "come il solo mezzo di salvezza dopo infiniti peccati", buttandosi tra le braccia dell'Ignoto.
Basterà questa Lettera ad aprire loro gli occhi, fermarne la corsa, fame coloni d'un Nuovo Continente, "dove ciascuno avrà un conto corrente della felicità"?
Artem Haruthyunyan, sdraiato, come a proteggerla col corpo, sulla sua zattera in mezzo ai mari e sognando un'Armenia "da mare a mare" (nella sua integrità geografica (1) e libera dai conflitti che la contrastano e dilaniano anche sotterraneamente) lo spera e aspetta una risposta, in sostanza, da tutti. Là dove vive: sull'Ararat, al "Centro di salvezza per il Diluvio".
(1) questa precisazione ("nella sua integrità geografica") manca, per pura fatalità, nella versione cartacea.