La costituzione stravolta da violenze incompetenze offuscamenti della vita democratica
Remo Ceserani
Bollettario n°41
La Costituzione italiana è stata costruita in un momento eccezionale, al termine di un conflitto rovinoso e di una guerra civile, e credo che la sua altissima qualità e le robuste potenzialità democratiche si debbano alle circostanze eccezionali in cui si è svolto il dibattito costituzionale e alla presenza di un gruppo di uomini molto motivati, quasi sicuramente con una tempra morale e ideali politici superiori di molto alla sensibilità media del paese e alle istituzioni organizzate e ai poteri forti di allora: l’apparato statale assai disastrato, i partiti di massa ancora in via di costituzione, la magistratura, la Chiesa cattolica, con qualche peccato di connivenza con fascismo e nazismo, le riviste e i movimenti di idee vivaci ma molto ristretti. Ha ragione Sanguineti a invitarci a leggere i dibattiti dell’assemblea costituente (che in molti casi rendono chiare alcune formulazione ambigue del dettato costituzionale): si tratta molto spesso di interventi di forte spessore intellettuale e morale, che fanno pensare alla miglior tradizione del pensiero giuridico italiano (qualcuno, alludendo agli esponenti di “Giustizia e libertà”, ha parlato di tendenze giacobine, e forse qualcosa di vero c’è, solo che i movimenti giacobini del Settecento si svilupparono dentro società di antico regime tutt’altro che pronte per cambiamenti rivoluzionari, mentre i nostri padri costituenti si trovarono a operare dopo cambiamenti drammatici e potenzialmente rivoluzionari). E ha ancor più ragione Sanguineti a chiamarci a difendere la costituzione. Questa purtroppo è stata per anni tenuta culturalmente e politicamente in una specie di limbo, attuata solo parzialmente e lentamente, smentita nell’azione politica quotidiana, ignorata nei suoi valori più profondi. Ma quello che sta avvenendo ora con il governo di destra guidato da Silvio Berlusconi e con un ministro alle riforme (!) come Umberto Bossi è molto più grave di quanto avvenuto nei decenni successivi al 7 dicembre 1947 (meglio non ricordare, per carità di patria, alcuni cedimenti gravi, in materia costituzionale, che si sono verificati al tempo dei governi di centro-sinistra).
Mi soffermo su quattro punti.
1) Il rifiuto della guerra. L’ articolo 11 è chiarissimo e perentorio: «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla liberta degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Un articolo come questo, che echeggia le esperienze tragiche della seconda guerra mondiale, distingue nettamente l’ordinamento costituzionale del nostro paese da quello dei maggiori paesi con cui negli ultimi decenni ci siamo alleati e con cui abbiamo collaborato all’interno dell’ONU, della NATO e della Comunità europea: ci allontana dall’Inghilterra, culla e modello della democrazia, che ha tranquillamente fatto non poche guerre post-coloniali negli ultimi decenni e ha promosso interventi bellici (dalle Falkland, o Malvinas, nel 1982 all’Iraq nel 2003); dalla Francia e dai suoi frequenti interventi con la forza militare nel Vietnam, in Medio oriente e in tanti paesi africani; e soprattutto dagli Stati Uniti, che della guerra hanno fatto uno strumento politico non eccezionale ma sistematico e continuato, come ha spiegato assai bene Michael Ignatieff, in vari libri e l’anno scorso in un paio di articoli sul “Magazine” del “New York Times”, elencando una lunga serie di interventi militari del governo americano nel corso di tutto il Novecento. La posizione di Ignatieff è esemplare: egli si è dichiarato contrario alla recente avventura in Iraq del governo di Bush, per tutta una serie di ragioni tecniche e di opportunità, e ha anche scritto la prefazione al recente libro del generale Clark, comandante delle truppe NATO nella guerra in Kosovo ma contrario alla guerra in Irak, e possibile candidato democratico nelle prossime elezioni presidenziali. Ignatieff, che è direttore della “Kennedy School of Government” a Harvard, può essere contrario a singole guerre, ma difende la guerra come strumento inevitabile di intervento dell’”American Empire” e come conseguenza logica della posizione di responsabilità che gli Stati Uniti hanno nel mondo. Egli non prova simpatia per la “guerra preventiva” ma non la respinge del tutto, e considera in ogni caso la guerra come strumento e premessa di una politica di “nation building” e “democracy building” nelle regioni arretrate del pianeta.
La dichiarazione di principio, che a me pare inflessibile, della nostra costituzione non può, invece, dare nessun supporto a nessun tipo di guerra: né a quella per esportare la democrazia, né a quella per colpire gli stati canaglia e combattere il terrorismo, né tantomeno all’idea, altamente paradossale, della “guerra umanitaria”. Quella dichiarazione ci pone invece in sintonia con paesi come la Germania e il Giappone, non a caso i due principali paesi sconfitti, insieme con l’Italia, nella seconda guerra mondiale. Dei due la Germania è forse il paese che più ha attraversato un lungo periodo di esame di coscienza collettivo sulle catastrofiche conseguenze dell’aggressività nazista. Il Giappone forse non ha fatto un esame di coscienza altrettanto profondo, e semmai ha reagito in modo più istintivo, ma altrettanto contrario alla guerra, dopo la drammatica esperienza delle bombe atomiche sganciate su Nagasaki e Hiroshima dagli americani. (Un episodio, quest’ultimo, che, al pari del bombardamento a tappeto sulla città di Dresda, meriterebbe qui una discussione, rinviando non tanto alle costituzioni dei nostri paesi, quanto ai trattati internazionali, in particolare a quello di Ginevra sull’uso di armi improprie in guerra: non mi pare che si possa mettere in dubbio che quel tipo di intervento, compiuto dagli alleati per accorciare la guerra, avesse tutte le caratteristiche dell’uso improprio di armi di distruzioni di massa particolarmente rivolte contro le popolazioni civili, e che abbia radicalmente mutato la conduzione tecnica dei conflitti militari e anche l’atteggiamento etico degli eserciti nelle guerre che sono seguite). Rispetto a Germania e Giappone l’Italia, paradossalmente, proprio per la vicenda della Resistenza, che divise il paese al suo interno e si sviluppò ampiamente almeno nelle sue regioni settentrionali, sentì meno necessario il bisogno di un’interrogazione collettiva sull’esperienza del fascismo, incoraggiò le posizioni giustificazioniste (retorica della Resistenza da una parte, presentazione del fascismo come fenomeno più benevolo del nazismo dall’altra, nonostante esso l’avesse preceduto e ne fosse stato il modello), produsse una serie di compromessi e comportamenti politici, rispetto ai quali tanto più spicca, nelle sue formulazioni nette e intransigenti, il dettato della costituzione.
In tutti e tre i paesi, in ogni caso è in corso, a seguito di un altro effetto paradossale, e cioè la fine della guerra fredda, un mutamento di atteggiamenti. E certamente in Italia, con il governo di destra, ma purtroppo anche già con quelli di centrosinistra, si sono avuti molti arretramenti e molte violazioni, più o meno mascherate, dei solenni principi della nostra costituzione.
2) La politica scolastica. Anche su questo punto la Costituzione è chiarissima. L’articolo 33 recita: «L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. la Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali». E’ stata chiaramente una forzatura (di cui porta la responsabilità il ministro Berlinguer) quella di appoggiarsi sulla seconda parte dell’articolo per erogare aiuti finanziari alle famiglie di alunni che frequentano le scuole private, con un’operazione politica spericolata e improvvida, motivata dalla necessità di avere le mani libere e potere avviare una riforma della scuola e dell’università, la quale per conseguenza è stata ideologicamente consociativa e ha finito per accettare una quantità di compromessi e cedimenti a interessi corporativi e gruppi di pressione.
Ma ancora più grave è stata la politica dell’attuale ministra della pubblica istruzione e dell’università, la signora Letizia Moratti, che in molte circostanze e decisioni si è dimostrata – e mi prendo tutta la responsabilità di questa affermazione, dall’alto dei miei settant’anni e sulla base di un’ampia esperienza in Italia e all’estero - la peggiore ministra dell’istruzione dell’intera storia dell’Italia repubblicana (e non è poco, essendo compresi nella lista personaggi come Gonella, Sullo, Falcucci). Totalmente incompetente di questioni educative, la signora Moratti si è mostrata prepotente e al tempo stesso incerta sul da farsi come tutti gli incompetenti, debolissima e succube delle decisioni prese, anche su questioni di competenza della pubblica istruzione, dal ministro dell’economia Tremonti, che le ha imposto continui tagli di bilancio e nel frattempo imposto una serie di iniziative molto pericolose, ideologicamente prigioniera di una concezione della scuola e dell’università come luoghi da amministrare e condurre come fossero «aziende», per la produzione (come ha seraficamente affermato il presidente del consiglio) di futuri imprenditori (così aggiungendo alle figurine tradizionali e deleterie della «piccola vedetta lombarda» e del «piccolo alpino» quella del «piccolo imprenditore»). La signora Moratti ha pasticciato, temporeggiato, nominato discutibili “think tanks”, e fatto di tutto per contrapporre, in nome di un discutibile principio di “concorrenza” e di discutibili richieste del “mercato”, scuole private a scuole pubbliche, università private a università pubbliche, rovesciando completamente il dettato costituzionale. Tra le grandi battaglie da lei intraprese figura quella in difesa della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche: anche questo è stato un vulnus non piccolo al dettato costituzionale (Articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»; discusso, e discutibile, articolo 7: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani»). Penosa mi è parsa la difesa di un simbolo che, con tutta la buona volontà, non sembra fra i migliori prodotti dalla storia millenaria del cristianesimo: certo ha i suoi profondi significati teologici, ma agli occhi di bambini e adolescenti, appartenenti alla più diverse culture, ricorda una pratica crudele diffusa nelle terre dell’impero romano, ha un sottofondo di compiacimento sado-masochistico, ha implicazioni abbastanza evidenti di antisemitismo, in quanto scarica sugli ebrei la condanna a morte di quello che era, a tutti gli effetti, un ebreo.
3) La politica della ricerca. Anche qui la Costituzione parla chiarissimo. Articolo. 9: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica». Qui il ministro Berlinguer aveva fatto cose buone, ottenendo risorse e interpretando nel modo più ampiamente civile e democratico il dettato costituzione. Anche qui il governo successivo ha agito in totale controtendenza, riducendo di fatto le risorse, penalizzando le istituzioni, come il CNR, gli enti di ricerca avanzata nel campo della fisica e della biologia, e introducendo un deleterio, tutto ideologico, e pochissimo lungimirante criterio di incoraggiamento a quei settori della ricerca che hanno un impatto immediato sulle tecnologie e sull’organizzazione produttiva, privilegiando i finanziamenti privati (che per loro natura preferiscono anch’essi gli investimenti che hanno un ritorno immediato). I dati sul declino di molti settori importanti del sistema industriale italiano (la chimica, l’informatica, le biotecnologie, ecc.) sono da fare risalire a situazioni antiche e non si possono imputare alla politica della ricerca del ministro Moratti (così come non c’è stato il tempo per avvertire gli effetti di quella del ministro Berlinguer), ma certamente l’attuale governo non ha fatto nulla per invertire la tendenza, anzi ha aggravato i difetti del sistema e introdotto comportamenti e linee d’azione che non potranno che peggiorare la situazione. La costituzione dice che la Repubblica «promuove» la ricerca scientifica e tecnica». «Promuovere» significa intervenire, indirizzare, investire, elaborare progetti che guardino lontano, e non lasciare che anche la cultura e la ricerca siano in balia delle leggi capricciose del mercato.
4) Le autonomie locali. Questo è un punto delicato. L’articolo 5 della costituzione, che è stato a lungo ignorato, anzi contrastato da tendenze autoritarie e centralizzanti, recita: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento». Anche su questo punto la visione dei padri costituenti era molto più netta e avanzata di quella che era stata del Regno d’Italia dopo l’unificazione e sotto il fascismo, e riconosceva che una vera democrazia per un paese come l’Italia, nato da tante situazioni sociale e culturali e da tante storie diverse, con molte capitali, privo di un vero centro in qualche modo paragonabile a Parigi, doveva prendere atto delle molte differenze su cui si fonda il paese, e delle tante realtà locali, addirittura municipali, e puntare sulle energie dei tanti centri in cui è articolato.
Se l’identità nazionale italiana ha un carattere specifico, questa è la straordinaria ricchezza, accumulata nei secoli, sepolta nell’inconscio nazionale piuttosto che espressa e articolare in una maniera conscia e astratta, costituita da numerose specificità particolari, di tratti socio-enconomici, etnici, linguistici, religiosi, culturali che non possono essere ridotti, come accade in altri paesi, a delle entità regionali. Per questo motivo anche le regioni italiane come entità politiche sono spesso del tutto astratte, essendo state inventate con decisioni amministrative da parte delle autorità politiche in anni recenti. La realtà sociale e storica dell’Italia tende a essere distribuita in numerose entità urbane o microregionali, che per secoli hanno messo in atto procedimenti contraddittori di inclusione ed esclusione di quelli che erano etnicamente, socialmente o sessualmente diversi, hanno dato forma a procedimenti di soggiogamento e di autonomia, di insediamento o dislocamento di popolazioni. Questo è il motivo per cui la Lega Padana di Umberto Bossi non è riuscita a ottenere i suoi scopi, specialmente quando gli scopi conclamati erano non quelli dell’autonomia ma della secessione delle regioni settentrionali del paese. Le regioni italiane del Nord, su entrambi i lati del fiume Po, non hanno una specifica identità storica o culturale, con la possibile eccezione del Veneto, una regione che dal Cinquecento fu dominata, potremmo dire colonizzata, dalla repubblica di Venezia, quando questa fu costretta dall’espansione dell’impero ottomano e dal crollo dei commerci nel Mediterraneo a rivolgere la sua attenzione alla terra e alle città della cosiddetta Terraferma, giungendo a trasformare pian piano l’intera sua immagine culturale e politica.
Il tema delle autonomie, timidamente affrontato in extremis dal governo di centro-sinistra, viene affrontato in modo contraddittorio e confuso da quello di centro-destra, che mentre promette a Bossi riforme costituzionali in favore dell’autonomia in realtà rafforza, in moltissimi campi l’accentramento autoritario dei poteri e l’offuscamento della vita democratica: nelle leggi elettorali, nell’accentramento dei poteri, nelle pratiche populistiche del consenso, nelle concentrazioni finanziarie e industriali, nella omogeneizzazione televisiva e nel suo uso unidirezionale, nei metodi stessi di conduzione della politica (fuori dai palazzi pubblici, dentro i palazzi privati, fuori dalle discussioni e dai confronti di idee, dentro le cene private di Arcore, fuori dai dialoghi e dai dibattiti, dentro i lunghi monologhi del presidente del consiglio.
Anche in questo caso siamo allo stravolgimento di alcuni dei principi di base della Costituzione.