Il pastiche linguistico di Vita Novissima
Mario Lunetta
Bollettario n°22/23
I.
Le esperienze più audacemente estreme del Novecento letterario occidentale, da Chlebnikov a Dada a Joyce a Beckett, respingono il linguaggio come mummificazione scritta paga di sé una volta per sempre, per investirlo di primarie funzioni di valore fonico e mimico. Ne esaltano insomma, profondamente, la gestualità. Lo vivono come evento comportamentale, in un'autonomia autologica che ne trascura la convenzionalità semantica e ne esalta l'animalità e l'energia biologica. U parola poetica è epìfanica. È una realtà che non deriva la propria forza di convinzione dalla mimesi del reale, ma si legittima in quanto apparizione inattesa, che contiene in sé non soltanto le strutture della ragione organizzatrice, ma - insieme, e allo stesso livello di intensità non gerarchizzabile - le pulsioni del fisiologico, del corporeo, della sensualità insomma, in tutta la sua estensione e spessore. Ciò implica, d'abord, da parte di chi usi linguaggi non sublimatorî, id est da parte di chi si ponga nei confronti dei materiali con un atteggiamento di assoluta sfiducia verso la salvaguardia dell'aura, una strategia di critica dell'economia Poetica che ne azzeri gli equivoci diffusi (comprensibilità, comunicatività, leggibilità, trasparenza immediata in ordine a un common sense "permissivo", regolamentazione dell'arbitrio etc.).
Chi muore d'estasi, si guardi dal risorgere, avvertiva qualcuno. Il problema, quindi, anche in poesia, è non abbandonarsi all'estasi: per non morire linguisticamente. Si potrebbe dire, in questo senso, che la poesia è una pratica del sospetto e una produzione di diffidenza permanente. Perciò, una messa in guardia del lettore. Un segnale d'allarme contro l'assuefazione all'apaisement della cattiva quotidiancità della lingua: id est, del pensiero. Il quale, come ricordava Tzara, "nasce in bocca" - notazione non di intenzione spiritosa ma di convinzione materialistica. Così, "nello specchio della lingua si riflettono spesso i genitali degli uomini", osserva nei suoi Pensieri spettinati il polacco Stanislaw J. Lec. Insistendo, poi, molto correttamente: "difendere l'arte? No, costringerla all'attacco". All'attacco di cosa? Ma naturalmente, di quell'apaisement che è il nemico numero uno dell'immaginazione, dell'azzardo, del rischio di tutti i linguaggi non garantiti, che non si appiattiscono sulla Koiné della comunicazione dominante ma operano in contropiede muovendosi su geometrie non prevedibili e su ottiche straniate.
Si sa di quali guasti si sia resa responsabile ai danni di tante tènere anime in quest'ultimo ventennio la ri-sublimazione della scrittura poetica, di volta in volta furbescamente camuffata sotto diversi - ma consonanti - abiti di scena. Sempre, comunque, la supremazia celebrativa dell'io poetico vi è apparsa il dato persistente più clamoroso, quello che un cacciatore non intruppato come Adriano Spatola liquidava sprezzantemente dicendo che "si può parlare di sé con un linguaggio impoverito e dolciastro la cui pratica mi pare sconsigliabile".
La voga dei postmoderno, che a parere di chi scrive non è - i suoi apologeti si affannano a dimostrare - il superamento in termini finalmente non settari del moderno, e la sua definitiva mise à mort, ma in realtà l'uso conservatore e mortuario dei codici vitali del moderno in una fase storica in cui la filosofia del Mercato Selvaggio è parsa (illusoriamente) vincente anche sul terreno della cultura oltre che su quello dei rapporti socio-economici, mostra ormai tutte le sue crepe (e le sue crèpes di plastica): né pare poi troppo convincente neppure la nozione di "postmodernismo critico" che certi gruppi giovanili hanno di recente avventurosamente inalberato.
II.
Ma in tutti i casi, il quadro della poesia di questi anni ultimi mi pare mosso, interessante e capace in certi casi di coniugare invenzione e consapevolezza. Sto parlando delle generazioni anagraficamente meno usurate, a una delle quali appartiene per es. Nadia Cavalera, leccese, per la precisione galatea, operante a Modena, che ha al suo attivo I Palazzi di Brindisi (Schena, 1986), Amsirutuf. enimma (Tam Tam, 1988), ha diretto la rivista Gheminga, ha fondato con Sanguineti Bollettario, e ora si presenta con Vita novissima, che raccoglie testi composti tra il 1981 e il 1991.
Cos'è che sorprende e convince in questa raccolta molto poematica? La distanza giocosa e drammatica dalla parola, che è sempre, assai vitalisticamente, gestualità e pronuncia, mimica e suono: una distanza che lavora a fisarmonica, dilatandosi in apertura massima o contraendosi fino a far corpo con la scrittura-materia, nel senso di un coinvolgimento istrionico e insieme durissimo, intransigente e leggero fino al vocalizzo. In tutto ciò, naturalmente, lo spazio della sapienza retorica occupa tutto lo spazio delle pulsioni, ne distilla succhi e veleni comme il faut, con la naturalezza di chi ordina (mentre li scompagina) gli assetti di una plurilingua che fa oscillare (anche follemente, e comunque sempre al livello del delirio) il proprio ago sui diversi piani della dispositio, senza soluzione di continuità. Il gioco di Cavalera presuppone, in sede linguistica, il pastiche; e in sede metrica, il verso ipermetro, che sviluppa un'estensione già di per sé (anche spazialmente/ graficamente) antilirica, e invece drammatico-narrativa. La scrittura, così, consta di svariate "scritture' , preesistenti in zone assai distanti tra loro (prelievi da considerazioni letterarie di specie teorica; lacerti di dottrine filosofiche; frammenti di saggi storici; affermazioni politiche), oltre che di mescidazioni continue e "pazze" di lingue morte e vive, il latino il greco l'italiano aulico e corrente, il francese l'inglese il tedesco, con l'aggiunta molto perentoria, e in qualche caso protagonistica, di espressioni in dialetto salentino, e l'inserzione bizzarra – in chiave ludico-fragorosa – di neologismi e barbarismi in repetitio fortemente assonàntica. Il capriccio sempre ben sorretto da -una griglia tecnica robusta presiede così a questa raccolta, sulle cui varie e dissennate giostre trascorre veloce e imprendibile l'inwgo di ' una Lulù (anzi, lulú, per la precisione), che tanto richiama la wedekindiana Lulu, e funziona come intermittente controfigura dei poeta che, vocandola, si rivolge in realtà a se stesso: "a me tu non sia mai uguale lulù: è l'augurio migliore che ti possa fare mentre / qui torturo trattur'abbandonat'assetati per farne vial'alberati dove la / riformagraria non c'è mai arrivata (la luna segnava i segni nei pegni d'un / canto: solo un canto)"; e ancora: "ah lulù rispetto a quanto prima non ci credere (: si fa per la rima) nzartika pure con le tue sperticate gambe strambe rott'a stozze struncunisciata in bozze e / binche cozze lasci'anz'un folco solco anche folclo ruspa vispa la via... ". E ancora, in un'orgia di asindeti, anadisplosi, citazioni, ossimori, paranomasie, la quale è andata crescendo nella seconda parte del libro (che non si riferisce necessariamente agli anni più recenti, essendo la disposizione volutamente casuale): "si lulleva lulù au débout pour la soubrette che rampant lapinette avec le sotttillet'in dépliant e il guardo fritto lassivo entro le palle d'omne oculo fiso avait bien servi oubliant sul moment ma mirette e musette..."
C'è anche, naturalmente, in Vita novissima, l'autobiografia: come titolo vuole: ma usata quale deposito di materiali frantumati, da spazzare via con gaudio e furore anziché da elevare agli altari secondo i decrepiti decreti della versificazione autocelebrativa. E c'è l'eros, un eros sbarazzino, corporale, materico e intriso di humor che subisce -giustamente- analogo trattamento: “petra ch'arretra m'impetra e m'impietra nella biolca d'una polca dinamo gl'occhi tuoi che sprangano come clava e sono già lava tento un duck è subito / un drop e in dribbling passo alla punta e tacco m'a te m'attracco grisou che m'ardi sempre più in sovrappiù cheppiù vedestù”.
Insomma, una poesia giocosa che si prende gioco anche della propria giocosità: e perciò sfora nel cupo, nell'enragé, dei tragicomico feroce. Una poesia impacificabile, e a suo modo maudite, nella sua funamnolicità da scoiattolo, nella sua gestualità ubiqua, nella sua oralità infine, che parla e straparla, e irride al mondo e a se stessa, e si mette in abisso nell'istante medesimo che si specchia in uno speglio deformante.
Così, ancora una volta, di fronte a un'opera così convincentemente vitale, ci si conferma come il lavoro sperimentale produca insieme i suoi morbi e suoi anticorpi, e sul loro rissoso equilibrio realizzi la propria vita precaria: la sola, credo che valga la pena di difendere, oggi, in tanto insopportabile scialo di patetico e di elegiaco soddisfatto di sé. La lingua si salva soltanto nel massacro, e solo gli armistizi la uccidono. Nadia Cavalera lo sa, con la sua bella energia: e la lingua, nella confusione delle lingue di Vita novissima, le rende grazie graziosamente.
Accademia Platonica, agosto 1992
ultimo aggiornamento:
venerdì 18 ottobre 2002 11.18.12
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