Guido Guglielmi: letteratura e critica come realizzazioni sociali
Mario Lunetta
Bollettario n°39
Siamo cioè condotti allo studio d'un rapporto inverso a quello
che costituisce ordinario obietto di osservazione. Che per
solito si ama disquisire dai savi come e quanto il pensiero e,
direi, l'interno calore dell'anima informi o accenda la tua
parola, o parlata, o scritta: nomina sunt consequentia rerum:
io no: io voglio in questo tema e nelle sue variazioni, farne
ridesti a un pericolo che sapete benissimo e pur siete adusati a
mettere, per una cagione o per l'altra, in non cale: la parlata
falsa ne falsifica l'animo e quasi pone in un tremito la mano
che regge, di ogniduno di noi, la barra del suo governacolo
contro all'onda traversata del destino. Tartana e bragozzo si
abbandonano di bordo all'onda e conoscono l'ora del
naufragio.
CARLO EMILIO GADDA
La notizia della morte di Guido Guglielmi m'ha raggiunto nella mattinata dello scorso 10 agosto
dalle pagine dei giornali sulla banchina della Stazione Termini, poco prima di una partenza per la
Toscana, e m'ha avvelenato il viaggio d'infelicità e di rimpianto. Ho provato, prima di ogni altra
emozione, un vuoto di senso. Era la scomparsa di un uomo probo e di un intellettuale di rango, al
quale mi legavano molte sintonie. Veniva meno con lui, me ne rendevo conto confusamente, come
nella stretta improvvisa di un orizzonte aperto, non un interlocutore ma un sodale "maggiore" nella
militanza letteraria che, quando praticata senza fini secondi, per puro amore di conoscenza e di
intelligenza della forma, diventa divisa etica, in parallelo con la soddisfazione estetica.
Guido era un caro, trasognato ma lucidissimo amico. Con quella sua incredibile aria di personaggio
scampato a un qualche diluvio, faccia angolosa, capelli lisci, occhiali un po' troppo grandi, parola
lenta che a tratti prendeva tuttavia velocità di freccia, ironia aggirante, sapeva leggere come pochi la
letteratura, per passione e per intelligenza, e ne dava conto con fedeltà intransigente e nettezza
acuminata di giudizio. Siamo stati per molti anni insieme nella giuria del Premio Feronia, e lui era tra i
membri più assidui e più attenti. Non si prendeva sul serio, ma prendeva sul serio il suo incarico, e
lo onorava sistematicamente con giudizi, interventi e relazioni di estrema precisione.
Scompare con lui un critico-teorico di grande spessore antistoricistico, che nelle sue analisi testuali
ha sempre dato alla storia (e alla storicità) un 'importanza fondamentale. La letteratura, e quella sua
frazione più imponderabile che è la poesia, non si campiscono per lui in una bolla d'aria disancorata
e vagante nei cieli dell'indicibile che nega il reale e la sua rugosa concretezza, ma possono essere
comprese e decifrate solo all'interno della loro presenza e del loro ruolo nel geroglifico sociale.
Sono parte del fare umano e della società, non astrazioni ineffabili. Sono tessere dell'immenso
mosaico dei linguaggi che parlano nella storia e ne sono parlati. "Ecco perche la critica, -scrive
Guglielmi in quel libro lontano e già decisivo che è Ironia e negazione (1974) -come storicità,
come intelligenza della temporalità, della storicità e della diversità, mentre ha bisogno in maniera
imprescindibile della semiologia, cioè dei modelli astratti per la definizione dei significanti, delle
costanti formali, non può fermarsi, ha ancora un compito da svolgere: a un certo punto occorre
cambiare strumenti e porsi nella direzione della storicità, cioè passare da una grammatica della
poesia alla definizione del tempo della parola e del linguaggio. Ciò che ora importa non è tanto la
presenza di stili particolari, perfettamente definibili in termini linguistici, quanto l'angolo dialettico
secondo cui le diverse voci si intrecciano nell 'opera e tra opere diverse, non tanto la realizzazione
linguistica di un messaggio, quanto la sua realizzazione sociale".
In quel libro il percorso del critico era la messa in opera di un progetto. Nessuna casualità. Nessuna
episodicità. E invece, scelte e individuazioni assolutamente rigorose e organiche, coi temi e gli
autori come frasi di un discorso in fieri che privilegiava la complessità contro qualsiasi corto circuito -
semplificatorio. Linguaggi e società vi erano studiati nelle loro contraddizioni dentro campi di forze
storicamente determinati, nel corso di un processo aperto di cui l'oggi era solo la stazione più
prossima. Manzoni, il Leopardi satirico, Verga, Pirandello, il Futurismo, Vittorini, Sanguineti:
questi, tra gli altri, gli autori necessari a un 'indagine non elegantemente astratta, e invece
materialisticamente aperta nella sua intransigenza.
In un libro esemplare come La prosa italiana del Novecento, Guglielmi riempie altre caselle del suo
territorio sistematico: Svevo, ancora Pirandello, Gadda, Bontempelli, Savinio; parzialmente
Calvino, e (direi a tutto suo merito di cultore delle centralità e delle differenze significative:
D'Annunzio) -davvero una mappa costruita su punti fermi. Quegli stessi punti fermi che gli
serviranno in seguito, e fino a tempi recenti, per comprendere e interpretare con non minore finezza
certe esperienze delle neo avanguardie e dello sperimentalismo contemporaneo e vivente. La chiave
primaria è quella che Walter Benjamin sintetizzava nella formula "qualità-tendenza". E Guido
Guglielmi non ha mai fatto mistero della sua predilezione molto tendenziosa per il lavoro letterario
eterodosso, anomalo, in definitiva "allegorico". L'avanguardia era nelle sue corde e nelle sue
arterie, fin dai tempi (1966) in cui con Pagliarani pubblicò il bellissimo Manuale di poesia
sperimentale: un altro dei libri che hanno aiutato tutta una generazione di scrittori in versi a
costruirsi un profilo spregiudicatamente moderno.
Guido non è più tra noi, con la sua faccia simpatica da intelligentissimo distratto, il suo passo
strascicato, le sue folgoranti autointerrogazioni. Ci restano quei suoi straordinari messaggi, che
conservano intatta e viva la sua tempra di grande critico militante, di saggista coltissimo, di teorico
di una letteratura capace di misurarsi con la violenza e le promesse ambigue di questo tempo senza
bussola. Ci resta la lezione della sua coerenza che, tra Lukàcs, Benjamin e Bachtin, costruisce una
triangolazione aperta, tutta tesa a fare della propria produttività un complesso di strumenti di
interpretazione che -nei meandri della grande letteratura -siano in grado di fornire, sempre, una
lettura della realtà non emotiva ma attivamente critica: "Il passato rivela per Lukàcs e Benjamin la
non verità del presente; e, nello stesso tempo, è un mondo ideale e utopico che non si può sperare di
realizzare nella presente situazione storica. Al contrario, per Bachtin, spetta al presente di
modificare continuamente le figure della verità (è il caso -l' evento, l' occasione attuale del
ricordare -che produce il ricordo ). La durata di Bergson diviene principio -per dirla con Gadda -
di euresi, e trova nel romanzo il proprio medium adeguato, la forma non del proprio fallimento, ma
della propria produttività".
Mario Lunetta
Accademia Platonica, ottobre 2002
ultimo aggiornamento:
sabato 19 ottobre 2002 9.41.13
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