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versione telematica di ''Bollettario'' quadrimestrale di scrittura e critica. Edoardo Sanguineti - Nadia Cavalera
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ESTRATTO

"L'animale"

Gabriella Maleti

Bollettario n°24/27


  Il nero aveva occupato gran parte del cielo, e quelle poche zone chiare che ancora si vedevano, in breve furono ingoiate da una coltre di minacce. Gli alberi, scossi da un vento incauto, nella loro macchia che s’ergeva colma d’arbusti e rovi, piegavano i rami più esili, e le foglie lambivano sia l’immaterialità del cuore temporalesco che la verosimiglianza del tuono in volute di spavento. Poi la pioggia cominciò a cadere fitta, si udì il suo rumore su ogni cosa, sulle inferriate divelte e posate nell’erba, accanto ad una stalla, sui sassi del sentiero, sulle foglie del fico, nella bocca spenta di una voragine che era lì ad ingoiare erbe secche, vertebre d’animali caduti, azzoppati, litanie, pentimenti.
  Il silenzio oltre l’acqua e il suo rumore. Oltre la memoria. Oltre il rumore metodico della pioggia: il silenzio, che la pioggia stessa portava come le appartenesse, come se il silenzio fosse pioggia. Oltre essa, in una corte estesa, il silenzio era su tutto, e tutto era scosso e pure immobile ad ascoltare il silenzio oltre la pioggia, nella pioggia. Il silenzio scosso dalla pioggia, inerme nella sua costruzione violata. Il silenzio rarefatto d’ogni erba, d’ogni albero, di ogni animale. Il silenzio che si può sentire incatenato alla pioggia, immobile alle sue spalle.
  L’animale sgusciò da un punto e tentò di traversare quanto più velocemente poteva il sentiero, infilandosi nella macchia, con rumore di frasche violate. L’uomo, immobile nel temporale, si riscosse e lo seguì, di colpo, chiamandolo a gran voce. Spolto d’acqua si gettò tra i cespugli, chinandosi, là, dove l’animale era passato, scomparso, seguendolo carponi. Si udì ancora l’uomo chiamare a gran voce l’animale, e ancora, nella pioggia, lo strisciare, il rumore soffocato degli arbusti che s’aprivano. Dopo poco l’uomo emise due interminabili lamenti, come di chi si distoglie da un’epoca non sua, si distende sul corpo di vecchie istantanee, su quanto di impressionabile lo aveva assoggettato: lamenti lunghissimi - anche di chi trova finalmente la sua positura - che si tesero innaturali nel crepitare della pioggia.
  Ora era comparsa anche una donna sul sentiero, lucida, grondande d’acqua. Con voce acuta chiamò l’uomo guardandosi attorno; poi alzando il viso al cielo si tenne i capelli facendone una gòmena da strizzare. Chiamò ancora, ledendo il rumore dell’acqua, i gemiti annegati delle tane: leggera la nebbia che avanzava stava già sospesa lassù, sulle punte di alcuni cipressi. "Fra poco farà boccone di tutto", pensò la donna, "appena calerà la pioggia, la nebbia, come una rugiada, resterà sospesa a covare, ad ingiallire nella luce fredda". In un urlo la donna chiamò ancora l’uomo, e poi ancora, con voce che stava arrochendo. L’animale di poco prima ora sbucò dalla macchia passando, con quella sua andatura pesante, davanti ai piedi della donna che in un grido di spavento stette a guardarlo un istante, animale così repellente, poi colse veloce un sasso lanciandolo alla bestia, mancandola. Ed ecco l’animale rifugiarsi, con fruscii (e parve con sospiri), in un intrico, rintanandosi. Allora la donna spezzò un lungo arbusto e andando a conficcarlo ripetutamente nell’intrico, tentò di molestare l’animale affinché fuggisse più lontano, ma si udirono solo soffi addolorati. Affannosamente allora la donna indietreggiò, lasciando cadere l’arbusto. Che animale era? Mai ne aveva visto uno d’eguale. Stringendosi addosso l’abito zuppo poi tremò a un tuono vicino, si scosse nel corpo, rabbrividì. Pensò che niente doveva sospendere la vita e con essa la genesi del dolore. Togliendosi l’acqua dal viso chiamò ancora l’uomo, volse attorno lo sguardo, al cielo: neghittoso, scure violacea nell’anima sua. Dov’era l’uomo? Dove s’era ficcato? E intorno, chi vigilava? Sentì addosso gli occhi di chi vede e non vediamo. Erbe erano nei relitti incontrastati di grandi ruote agricole scalzate, lasciate nel campo, legno friabile come ossi secolari, come dozzine di bocconi ròsi e poi sputati, lì, nel silenzio indivisibile della pioggia e del suo rumore. La donna si strinse di nuovo addosso gli indumenti e con voce strozzata, nel tremore delle sue carni, chiamò ancora l’uomo. Dalla macchia si udì allora un rumore di rametti smossi, spostati, che riempì la donna di tremiti, trattenendola nel respiro che non venne. Lentamente, un animale simile al primo, dondolando, uscì dall’intrico, una zampa e poi l’altra, una zampa e poi le altre. La testa coriacea, muovendosi come un ciondolo, si volse in direzione della donna che inorridì. L’animale emise un suono rauco, basso, da vittima, e, non fosse stato per la pioggia, dagli occhi parve gli colassero lacrime. Le gocce cadevano sul suo dorso duro, e pure se colmi d’acqua gli occhi bianchi la guardavano fissi. Da quel biancore osservavano. La donna, allora, quasi soffocando, cercò un altro sasso e chinandosi ne colse uni di fattura consistente. Con quello tra le mani guardò e riguardò la bestia, affannosamente, con timore e con dolore, e in un urlo inconsolabile lo tirò con tutta la forza. Il sasso andò a colpire la testa dell’animale che si afflosciò senza un suono. Poi la donna fece due passi indietro chiamando ancora l’uomo: un soffio. Rispose l’animale, che, nel sangue che gli andava coprendo gli occhi, rispose: "Sono qui".
   
   
L’immensità vuota delle cose, la grande dimenticanza che c’è nel cielo e nella terra…Fernando Pessoa
di Gabriella Maleti


In questo apparente abitare
dove ogni cosa ha voce a parte,
nella salubrità mistica delle umbro-gole
(la ragione di getto esclusa per un fatidico:
mi rinserro qui, mi avvolgo in gole e pastrano d’alberi)
siamo stati lasciati - credo - come incompiuti
in un compiuto intorno per silenzio e vuoto.
 
E non può essere che incompiuto
questo sperdimento nel fitto incerto,
nella globulare ricerca che possono gli occhi,
come un remare senza costrutto alla mia porta
simile a me, per niente rassicurare e
finita.
 
Così ci ragguagliano gli infiniti e le foreste
e nubili membri e le truci tempeste.
Vago, senza ragione forse spiro, in un vuoto
ingiustificato da stambecco
o rupe.
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ultimo aggiornamento: domenica 11 febbraio 2001 12.41.05
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