Se la poesia ha da essere, mediante i propri "specifici" mezzi, una forma di conoscenza , sarà necessario scrutare attentamente, valutare, forse scartare, molti degli atteggiamenti più invalsi fino a oggi e ancora oggi. E non solo quelle pretese di illuminazione epifanica, connessc nel senso comune alla nozione stessa del 1irico", le quali, quanto ad apporto conoscitivo -e sebbene aspirino a fare nella poesia una forma di conoscenza "superiore", ma proprio per ciò staccandola dalla comune conoscenza umana- si affidano a un'intuizione che, volendosi immediata ed extraconcettuale, finisce per restare al palo delle impressioni scontate, delle associazioni più facili, e dei fantasmi mentali più radicati. Ma anche l'idea che attraverso il veicolo poetico si trasmetta esperienza, dove si restringa all'ambito dell'esperienzi individuale, e quindi -come spesso accade- del "vissuto", affidando al testo la registrazione, di fatti e eventi (foss'anche psicologici), finisce per restare nell'ambito di una informazione priva di mordente riflessivo e critico, ancora con ripristino di "aureola" sul capo del soggetto poetante, la cui biografia -questo il messaggio implicito- si eleva a poesia in factis. Ma pure quando si volesse demandare al poetico la riflessione sulle "cose" (le cose di tutti, le cose collettive), si accalcano i rischi di scorciatoie, di semplificazioni scorrette, e quindi di una conoscenza distorta: perché l'assottigliarsi della consapevolezza nella "specificità" (tutta storicamente determinata, certo, ma non per questo trascurabile) dei mezzi poetici, può condurre quella istanza di riflessione a un semplice "riflesso"; demanderemmo allora al testo.
Non di reagire alle cose, ma di conoscerle solo passivamente, con l'essere un passivo indice (sociologico o, al massimo, sociolinguistico) dell’esistente. Certo si tratta di conoscere le cose attraverso le parole: ma occorre, nello stesso tempo, l'autocoscienza poetica della distanza delle parole dalle cose (soprattutto quando le connoti lo stigma del l'appartenenza letteraria).
È quest'ultimo l'atteggiamento costitutivo della poesia di Nadia Cavalera. Le parole sono spinte verso le cose, anzi, sono trattate esse stesse come cose, nel manipolarle e nel disporle. Nello stesso tempo non sono spogliate dei segnale della letterarietà: ma questi segnali (che nelle vesti poetiche tradizionali servono alla riconoscibilità, per distinzione e prestigio, quindi valgono a distaccare le parole dalle cose) vengono tesi al massimo, accentuati fino all'estremizzazione, finché non si rivoltino contro se stessi. Del resto, a una ripresa estremizzata della tradizione allude il titolo stesso, nel far diventare la vita nova una vita novissima - Ed estremizzata è, infatti, in primo luogo, l'omofonia. Quella ripetitività dei suoni, sulla quale la poesia ha fondato la sua aria di autonomia separata (secondo la nota teoria jakobsoniana, nel ripiegarsi e richiudersi del messaggio sul messaggio medesimo) viene condotta, nei testi della Cavalera, a conseguenze radicali. Non più quell'equilibrata distribuzione in fine di verso, come nel procedimento tradizionale della rima, ma il ritorno omofonico si reitera in spazi brevi, si fa sequenza ravvicinata senza impedimenti di sorta: serve non all'inquadramento dei materiale verbale, ma alla concatenazione, alla aggregazione o, forse meglio, alla associazione delle parole. Infila (e infilza) schidionate di parole, in quantità per forza di cose non illimitate (anche se ha l'aria di non voler smettere più), e tuttavia esagerate ed abnormi. Un effetto-eco: ma di più, qui: un effetto di rimbalzo, di rimpallo, di ripercussione. Che inzeppa le parole ('fitte infitte e trafitte"), non peritandosi -se del caso- dal deformarle pur di includerle nella serie: così, nella sezione 21, 1 “onore"diventa "salvito" per contagio da "garantito". La serie procede in tensione irregolare, toccando il suo proprio fondo solo nell'esaurimento e nel cambio di passo che dà inizio a una nuova catena basata su altre sillabe-guida. Questo procedimento, che non è certo l'unico, ma -altrettanto certamente- è il più eclatante ed esibito, quello che subito colpisce l'orecchio (e anche l'occhio) di chi si accosta alla poesia della Cavalera, mette in luce la "spinta" che sottende il tessuto verbale. Una spinta, una furia sonora. Da intendere non solo nella chiave psicoanalitica di un ritorno del rimosso piacere fonatico infantile (o, nella versione alla Orlando, di un"ritorno nel represso formale" nella letteratura), ma soprattutto -come io credo- da prendere come nodo per entrare in contatto con l'energia somatica "materiale" che il testo vuole trasmettere.
Ora, l'associazione per somiglianza di suono dovrebbe condurre all'equiparazione delle parole, all'indistinzione delle differenze di rango nel regno verbale. E tra l'altro nel senso dell'equiparazione agisce anche l'impostazione metrico-strofica della poesia della Cavalera: il suo verso tipografico, che poi non è neanche più un verso vero e proprio, essendo la mera risultante dell'inquadramento del testo nella misura della pagina (e dunque l'unica unità è il "riquadro"). E si aggiunga la latitanza della punteggiatura (non del tutto assenza, dato il ricorso ai due punti, curiosamente inseriti in parentesi, però) che, lo si intuisce, annulla le possibili gerarchie e subordinazioni sintattiche.
Eppure l'esito è diametralmente opposto a quello di ogni possibile monotonia. Se è vero che la poesia della Cavalera ricorre spesso alle figure della danza, e spesso scatenata, non solo "balletto" ma anche "trescone" e “ rumba"; se può capitare perfino che ballino le "manette" (in quella che sembra, nel richiamo agli attuali avvisi di garanzia, una allegra rivincita della legalità a lungo posta in non cale), è nel suo insieme che questa scrittura non lesina mezzi per movimentarsi in mosse e passi acrobatici.
Dunque, proprio nel momento in cui tutti gli elementi della tessitura assumono il paritario valore "elementare" che si è detto (di elementi, appunto, di una sintassi aggiuntiva), tanto più possono memergere -ed essere giocate in vario modo, a seconda dell'accostamento nella sequenza- le divergenze del significato. Lo scarto dei livelli e dei registri può esaltarsi. Ed avranno luogo incontri fortuiti e sorprendenti, prossimi all'assurdo surrealista, come -ad esempio, tra i vari possibili- quel "vicario che cavalca il ricino del dromedario" della sezione 51. Le parole, apparigliate fonicamente, proprio per questo rivelano con maggior forza le loro disparate provenienze. Lo scarto del calembour può appoggiarsi sulla sostituzione di un minimo componente, basta una lettera o quasi, per ottenere, ad esempio, "un mazzo di rose e suole", oppure 'l’olio di ficino". Ma il gioco di parole può anche scattare per una sorta di associazione indebita, che si inserisce nella frase -a partire da una parte comune- per deviarne il corso previsto; ed avremo "veng'ai tuoi pie' (à terre)" e " osanna nell'alto soppalco dei cieli".
Il materiale, che così si viene stipando, ha la più varia provenienza. La molteplicità delle lingue, il plurilinguismo, abita fino in fondo questa poesia, e la percorre in lungo e in largo, sotto la spinta di una sintassi che non è semplicemente paratattica, ma a "climax" o, per meglio dire, a "rilancio". L'antico e il moderno si susseguono e mescolano (ma con le dovute scintille) in vertiginosi passaggi. C'è forte escursione tra i livelli, nient'affatto un pacifico dialogo. Nell'affollarsi delle lingue straniere si insinuano i termini entrati nell'uso al seguito delle merci della loro réclame: un linguaggio che si presenta con la patina dell'aggiornato, ma rivela subito, nel suo concitato aggiungersi, la vera anima di fatuo kitsch pretenzioso. Ma a questo versante, dove si suggerirebbe la compresenza di tutti gli spazi (il cosiddetto "villaggio globale") e il mescolamento ad libitum dei frammenti linguistici, ormai etichette di un consumo planetario; a questo versante -dicevo- fa da controcanto la misura personale, una sorta di particolare pronuncia, che mastica le parole, e soprattutto n'e sbocconcella i margini, con elisioni di apostrofi. Far fuori i confini costituiti della parola significa additare tendenzialmente il superamento della parola nella frase: e non a caso l'invenzione neologistica lavora a produrre composti come, nella sezione 7, "saltellanfanando" e "titilvellico", quando non proceda -inversamente, ma non in senso opposto- a scavare i confini interni della parola (come accade al termine 'allucinazioni', sezionato e interpretato nelle sue componenti in "ad-lucem-azioni", nella sezione 88).
La pronuncia, per quella sua tonalità dialettale -sia che si giovi di asprezze gutturali (quali "lakku" e "ffoku'), sia che ottenga per aferesi spericolati inizi consonantici ("ddurmisciutu" e "ncarognutu” restringe il linguaggio in un lirnitato spazio localistico: e tuttavia, come il lessico straniero non funziona da semplice indice sociologico ed anzi è, strictu sensu, la parodia dell'aggiornamento, così questo, della pronuncia e della tonalità dialettali, che fa la voce un po' barbara, da parlante extraculturale, non addita minimamente paradisi originari da raggiungere per i binari della nostalgia ritornante, ma piuttosto si pone come segnale di irriducibile resistenza della singolarità (e di una "masticazione" del corpo della parola) proprio contro l'invadenza mercantile del linguaggio-calderone, della mescolanza e contaminazione postmoderna di tutto con tutto. I materiali citati recano le cicatrici degli strappi, i residui insorgono. Il testo si offre non solo alla constatazione dei linguaggi che ci attraversano nel presente (che sarebbe una funzione di attestato informativo), ma reagisce all'universo verbale attuale mettendolo in contraddittorio, anche, con la lingua morta del passato, con le radici della parola lirica (lo stesso titolo indica un rapporto con la tradizione, sia pure esasperato). La tradizione, appunto, lei che dovrebbe essere del tutto trasparente e inavvertita perché consistente nell'opera stessa di mediazione, si legge invece in segni pesanti che marcano scarti, menzioni, frammenti inarticolati. Di parodia si tratta, certamente, quando le donne per eccellenza letteraria ("beatrice e laura", nella sezione 74) sono attirate nel cerchio del gioco e la stessa vena amorosa con il suo aire euforico (e l'avocazione dell'altro) si trova impicciato -se non piomba- nei piani bassi dell’ “osé porna”, di una ironizzata focosità; e tuttavia parodia non leggera, non superficiale, ma piuttosto tesa a strappare le residue energie dei modelli messi sotto esame.
A ciò concorrono effetti di contrappeso. Non solo il prosaico della attualità materiale, ma anche brani di andamento prosastico di classica riflessione filosofica vengono a interrompere le concatenazioni sonore, e quindi aiutano a guardarle dall'esterno. Conoscenza per contrasto e per antitesi, dunque, condotta in un ritmo che rilancia sempre in avanti la frase poetica, ma secondo un'intermittente direzione di innalzamento e abbassamento del tono. Ora è lo stesso io che prende a salire ( magari, come nella sezione 54, sullo slancio di futuri "creativi": «baccherò... barcherò ... bargellerò ... bombicerò, ecc.) o si proietta oggettivandosi in un alter ego di sesso opposto a quello dell'autrice (mentre il soggetto femminile è collocato fuori, nella fantomatica -e mitica- inerlocutrice Lulù); ora, invece, si impaluda nel dispersivo. L'io è chiamato "ad alte mete" e subito dopo coinvolto in "sprechi". Ritmica della conoscenza: qui la ragione interviene sulla materia, lì la materia sopravanza la ragione.
Di questo procedere fanno parte integrante e costitutiva le parentesi (pronte a moltiplicarsi al quadrato e perfino al cubo in parentesi dentro parentesi): le parentesi rappresentano le possibili diramazioni del testo, le linee di fuga ipoteticamente aperte, le membra applicabili al corpo testuale centrale. La presenza dei due punti all'inizio delle frasi parentetiche dimostra che esse costituiscono le coordinazioni eventualmente praticabili. In un certo senso, quindi, sono le alternative. E come tali compaiono soprattutto in finale di brano (quella la loro sede deputata e pressocché immancabile). È nella fase conclusiva che il testo si rivolge ai modi che avrebbe potuto praticare: ciò viene a costituire una caduta (un "anticlimax") della spinta euforica del caricamento poetico. Questa spinta, infine, urta e si ammorza contro un materiale altro. Non per niente, a controcanto finale, si trova o la considerazione materialistica o la riflessione filosofica, di cui poco sopra si discorreva. Così come dev'essere la logica del calembour, che strappa senso là dove non andrebbe cercato, cioè nel gioco dei suoni; e che, perciò rischia di lasciarsi andare nella facilità di una automatico perpetuo "scioglilingua", trova termine nella tournure sentenziosa, in cui viene terminalmente ancorata al linguaggio messo al lavoro attorno al pensiero.
Le parentesi sono come i diversi strati del lavoro linguistico. Queste complessità e contraddittorietà del testo rimandano al confronto con la linea dell'avanguardia, che l'autrice stessa mostra di tenere presente nella titolazione del suo libro, con quel "novissima" che non è soltanto, come si è detto, una prostensione del "nova" dantesco, ma anche un esplicito omaggio all'esperienza dei "Novissiini". Sulla possibilità di una ripresa -con tutti gli accorgimenti del caso- dell'avanguardia letteraria il dibattito si è recentemente riacceso, soprattutto attorno all'antologia Terza ondata (curata da Filippo Bettini e Roberto Di Marco), in cui, tra l'altro sono compresi anche testi di Nadia Cavalera. Uno dei migliori interventi in merito, quello di Guido Guglielmi (ne L'Unità del 26 aprile 1993) sottolineava il fatto che ormai non è più in questione, nell'avanguardia, l'originalità a tutti i costi, quanto la verifica della «produttività storica di una linea critico-sperimentale». Anche nel caso della Cavalera, l'originalità si costituisce non nell'invenzione dell'assolutamente "nuovo" (in anni in cui il "nuovo" finisce per essere sbandierato da trasformismi di dubbia risma), ma nella scelta -quella sì inedita e decisamente controcorrente- di una posizione linguistica, e non solo linguistica, da cui organizzare il flusso delle parole: facendo affrontare criticamente gioco e lavoro, ironia e ragionamento. L'invenzione verbale (le 'frottole" di cui si dice alla sezione 3) deve rendere "pallottole" duramente polemiche, cioé agire in senso antagonista in duplice versante, all'interno delle incrostazioni del soggetto e all'esterno delle abitudini dei pubblico; e ancora: all'interno delle forme letterarie e all'esterno delle idées reçues. Unificare (e vivificare), come scrive la Cavalera, “1'esplosivo con 'implosivo corrosivo”.
Concludendo, i testi di Nadia Cavalera ci offrono un ottimo esempio di conoscenza critica svolta attraverso le immagini del linguaggio. Vedere, per prova, quale sorte vi abbia una delle celebrazioni ufficiali degli ultimi tempi, quella dello scopritore dell'America Colombo (alla sezione 85). Demitizzato dalla stessa eco dei rimbalzi sonori (stretto a sandwich tra le rime parodistiche con «aplombo» e «zombo»), l'eccellenza dello scopritore è rigirata nella testarda negazione della scoperta. Il plurilinguismo che qui si assiepa ' compreso ovviamente) lo spagnolo, mostra già, in proiezione, l'effetto di restrigimento del mondo che verrà poi. Ma intanto, dietro l'avanzata delle bandiere del moderno (e ancora, in particolar modo, per virtù di parentesi), se ne rivela la crudeltà sanguinaria. Non è l'oltrepassatempo del post-, ma l'opposizione dell'anti-: la «supernova era», cui oggi inneggia lo spreco consumistico, è piegata nei risvolti negativi. E il suo eroe messo in "doppio" con brusco passaggio da «alfiere» a «pompiere»: riportato in basso: rivelato nella casualità inconsapevole: inchiodato, per inciso, al suo ruolo reale.