Guido Guglielmi era un critico dotato di grande attenzione e sensibilità, come dimostrano i suoi libri dedicati in particolare al Novecento, i volumi sul romanzo, i saggi di Ironia e negazione (un’accoppiata vincente), dove l’interpretazione entra nei dettagli del testo, affronta quella che, qualche tempo fa, si sarebbe chiamata l’écriture, cioè la proprietà creativa del tessuto linguistico-semantico complesso fino all’enigmaticità. Ma Guglielmi era anche un teorico della letteratura, tra i più importanti in Italia. La sua intelligenza e competenza gli permettevano di descrivere con chiarezza le posizioni sulla piazza e di disporle in un quadro o in un ventaglio di rapporti, in modo da far risaltare le loro qualità. Il suo libro La parola del testo ci ha consentito di capire molto meglio i risvolti del dibattito - e dello scontro - tra ermeneutica e decostruzione, proprio perché Guglielmi non interveniva per partito preso, ma si muoveva attraverso la comprensione dall’interno del discorso altrui, per arrivare, però, alla presa di distanza (come avviene, magistralmente nel caso del saggio su de Man, un autore piuttosto ostico, ricostruito lucidamente senza nessuna resa al “mostro sacro”). Sul nodo centrale degli anni Ottanta, la querelle tra Gadamer e Derrida, Guglielmi arbitrava passando al di là di entrambi, contestando al primo l’attaccamento a una tradizione senza plurale e al secondo l’azzeramento di qualsiasi istanza progettuale sia pur problematica. Il punto d’appoggio del suo discorso teorico (su cui finivano a convergere sia il ramo Heidegger che il ramo Marx) era la storicità: una storicità radicale, senza rifugi e senza garanzie. Una storicità lontana dallo “storicismo” delle mete prefigurate e invece lasciata aperta, impregiudicata, soggetta alla contingenza incontrollabile (Guglielmi parlava, infatti, di un “rischio dell’interpretazione”, che dobbiamo comunque assumerci). Applicata al testo, la storicità radicale significa dubbio e ironia sulla monumentalità dell’opera (quindi sulla stessa nozione di classico) perché “sua maestà il testo” - come qualcuno lo ha chiamato - è solo una versione che a un certo punto (talvolta per caso) l’autore ha licenziato, ma non è detto sia stabilmente quella definitiva; il suo “senso”, poi, muta nel tempo con le ondate delle interpretazioni, in relazione alle domande decisive e alle implicite strategie dell’attualità.
Nulla è fermo: questo tempo vorticante è quello della modernità, il nostro tempo. Per quanto Guglielmi conoscesse bene le recenti asserzioni di un presunto passaggio alla “postmodernità” e abbia affrontato con acume, soprattutto - direi - nel saggio L’autore come consumatore, i mutamenti in atto e le difficoltà presenti per chi non voglia adeguarsi alla corrente della cultura-mercato, tuttavia proprio lì concludeva: “possiamo dire che non siamo usciti dalla modernità. Siamo obbligati a mantenerci in essa. Dobbiamo solo ripensarla: e cioè ripeterla e reinventarla. Il moderno progredisce ritornando su se stesso, ritrovando la via, riscoprendo la critica”. E difatti Moderna si era intitolata la rivista da lui fondata e diretta insieme a Romano Luperini. Una modernità che si ispirava ai nomi di Baudelaire e di Leopardi, una modernità sempre pronta a mettersi in questione, preoccupata di non farsi restringere in una definizione o in un ritratto stabilito, quella che chiamerei una “modernità in stato di allerta”.
Leggiamo nella introduzione al suo ultimo libro, L’invenzione della letteratura: «La modernità è autocritica; e la letteratura è attraversata da una antiletteratura. (…) C’è una tendenza nell’arte moderna che la porta a oltrepassare se stessa». E vorrei sottolineare anche, nello stesso scritto, il recupero coraggioso della famigerata dialettica, anche qui in chiave di apertura problematica: «Sarà una dialettica che darà una posizione centrale al tema della contraddizione piuttosto che a quello della conciliazione, e non sarà più tentata dalle durezze sistematiche che l’hanno sempre accompagnata. Ma di essa avrà bisogno ogni discorso critico». In questa chiave si inserisce l’interesse di Guglielmi per l’avanguardia, alla quale egli arriva da due prospettive: da un lato c’è la complessità del testo avanguardistico che si radicalizza rispetto alla “tradizione della moderno” e che quindi ancor di più si presta al ricorso all’allegoria (in una conferenza romana ai miei studenti, Guglielmi spiegò l’allegoria a partire dall’esempio del sogno: poiché non capisco il senso del sogno devo ricorrere al senso allegorico - ipotesi che può valere anche per la proverbiale “difficoltà” dell’avanguardia); dall’altro lato, poiché l’avanguardia si brucia negli eventi che produce (si fa pura attività, in alcuni casi immediatamente politica), in tal modo ubbidisce alla regola della completa storicizzazione dell’arte. Lasciatemi citare un messaggio di posta elettronica, che ho ricevuto il 1° luglio (poco prima che accadesse la disgrazia che nulla allora mi lasciava prevedere); in risposta a un saggio che avevo inviato per la rivista, Guido puntualizza: «L’avanguardia è un’arte-azione (cioè comunicazione di choc): quindi il teatro e oggi i media non letterari che soli hanno potere di coinvolgimento o di esercitare un’azione politica. La grossa novità dell’avanguardia come fatto esclusivamente novecentesco - mi sembra - è il rifiuto dell'estetica (Duchamp) e la sua vocazione rivoluzionaria in senso forte. Un’avanguardia la vedrei attiva (benjaminianamente) nelle crepe del potere (laddove crepe ci siano e trovino talenti in grado di sfruttarle) che gestisce i media (cinema e televisione)». C’è in questo messaggio la volontà di ribadire quanto ripetutamente affermato: che una chance di intervento resta comunque aperta, anche nella povertà culturale dei nostri tempi. Non per caso era stato Guglielmi l’interlocutore esterno più vicino, negli anni Novanta, durante i tentativi di rianimare il conflitto delle tendenze e dell’antagonismo letterario.
Quest’anno avevo inserito La parola del testo tra i libri del mio programma didattico. Tra le altre cose, ho fatto presente agli studenti la particolarità dello stile di Guglielmi, forse assunta per influsso della lettura continuata del suo amato Benjamin. Quelle frasi icastiche, secche, come un ritmo del pensiero che riparte e non smette mai. Lo stilema potrebbe essere definito come una rinuncia ai due punti: la frase con i due punti in fondo pretende di essere esplicativa ed ha in questo una sorta di chiusa circolarità; la frase isolata è solo in apparenza più assertiva - invece, nel seguirsi delle frasi come segmenti un po’ disarticolati, il discorso diventa una continua correzione sul tema. Ogni frase modifica la precedente e ne devia il percorso, un’altra potrebbe sempre aggiungersi.
Ma questo è solo uno dei tanti aspetti esemplari che cerco di conservare presenti, nel vuoto che Guido ha lasciato.