Dopo aver praticato, nell'ambito del suo progetto sperimentale e d'avanguardia, varie forme e travestimenti, giocando anche su ironici "eteronomi" stranieri, Nadia Cavalera reinventa se stessa adesso, con Salentudine, nelle vesti della poetessa dialettale. È l'ulteriore prova che la "funzione dialetto" costituisce una direzione ragguardevole della ricerca attuale, ma pure la conferma che tale direzione costituisce tutt'altro che un semplice e ingenuo ritorno alle origini. Se, infatti, il dialetto utilizzato è proprio quello di provenienza dell'autrice (di Galatone, in Puglia) per niente scontato è, invece, il genere poetico in cui è utilizzato, che è il limerick, strofa giocosa di ascendenza irlandese, totalmente estranea alla tradizione italiana. Da questo accoppiamento inusitato nasce un cortocircuito estremamente stimolante.
In primo luogo, il dialetto porta in dote una carica sonora e un "espressivismo", per così dire, congeniti. Se Nadia Cavalera, nei suoi testi precedenti, ci aveva abituato alle catene delle allitterazioni e delle paronomasie a raffica, adesso può formulare, attraverso le tonalità del suo dialetto ribattute nelle rime esterne e interne, una musica stralunata e stridente. Particolarmente vivace è l'inserimento del lessico grottesco delle parole lunghe, di quattro sillabe e oltre, che si trovano preferibilmente nell'ultimo verso del limerick, dove servono per altro da aggiunta e allungamento nella ripetizione del verso iniziale, voluta dalla regola del genere. Si possono inventariare via via degli aggettivi ben curiosi, come "bbintulisciatu" (ventilato), "runciddata" (rattrappita), "mbirdicutu" (sporco), "bbisinchiata" (trascolorata), "scarrampulatore" (d'impervi luoghi). E aggiungerei due termini alquanto onomatopeici, che si trovano in versi contigui di uno stesso limerick: "struncunisciata" (malmessa) e "scancalimbitava" (s'intrometteva); il cui soggetto, se lo si vuole sapere, è una curiosa "buttana" di Tuglie.
Il dialetto come linguaggio nativo e quindi come lingua del corpo e delle pulsioni elementari agisce anche qui a portare verso il basso la tematica della poesia, circolandovi, insieme ai moti del ballo e a infantilismi irriverenti, questioni di sesso, di cibo o di bevuta. E venendo a ribaltarsi inopinatamente i livelli elevati e sacrali: come nei casi eclatanti del santo di Copertino che regala in premio mandarini ai tipi più violenti; o della fata di Cutrofiano che si carrucola in un cesso; o ancora, addirittura, del verme di Salice che si nasconde sacrilegamente nei santi sacramenti del calice e dell'ostia - fino alla "santa rioluzzione", incendiaria e anti-istituzionale di una quaresima di Sannicola. Nessun Valore con la maiuscola può starsene al sicuro, come del resto nessun Senso con la maiuscola va avanti fino alla fine. L'effetto che comunicano questi testi, infatti, sta tutto come dicevo, in una sorta di scarica elettrica: mentre il dialetto porta con sé lo "spirito popolare" e l'affettuoso avvertimento della stramberia, dal canto suo il non-sense sconvolge il contesto e viola qualsiasi configurarsi di un ambiente "familiare". Mentre il dialetto contribuirebbe a "naturalizzare" la scena, il non-sense provvede a "modernizzare" (e può accadere allora, come al personaggio di Alessano, di passare dal pianto al riso mediante opportuna "spina" connessa ad apposita presa), a invertire gli ambiti della natura (l'uccello va a piedi e lo scorpione vola), compresa la resa innaturale delle forme più quotidiane (compaiono persino "oe quatrate", uova quadrate), allo sproporzionato e all'ossimorico (una "fòkara ddifridduta": un falò freddo). Anche là dove la classica filastrocca è ripresa dalla tradizione, gli elementi citati si scambiano di posto e si ribaltano, tanto che è la civetta (qui "kukkuascia") a mettere il dottore sopra il comò.
Nadia Cavalera, inoltre, lavora ad estendere la funzione del soggetto. I protagonisti del limerick, infatti, non sono soltanto uomini e donne, nei loro ruoli familiari (mariti, mogli, figli) o arti e mestieri (la "buttana", il "piscarulu", il "furnaru", il "monacu"), ma anche animali e addirittura oggetti. È chiaro che, più si procede oltre l'umano, e più le azioni e le parole dei personaggi diventano improbabili e inverosimili. Bestie antropomorfe compiono numerose incursioni e lasciano il segno di una istintività strabordante e di una presenza sconveniente: vedi il ciuco di Bagnolo "ca sulu sulu si sculava nu litru ti barolu"; oppure la formica di Zollino che contraddice alle normali proporzioni, essendo "erta comu nu pinu". Ma certamente la sorpresa è maggiore quando a compiere azioni umane sono vegetali (il carciofo), minerali (la pietra), o magari oggetti (la bilancia, l'orologio, il coperchio). "Nc'era na bbascula ti Castrignano ti lu Capu / ca riccugghìa muddècule cu nu tappu": non solo la bilancia se ne va a spasso, sembra, ma è colta nel gesto incongruo di raccogliere briciole con un tappo! Ancora: "Nc'era nu tampagnu ti Miscianu / ca lli lizziuni si istìa ti cappillanu": ossia un coperchio che si presenta alle elezioni vestito da cappellano, irridendo così al trionfalismo politico e parodiando il conformismo religioso, solo per la potenza delle associazioni sonore.
Nadia Cavalera, in questi anni, ha tenuto vivo il discorso dell'avanguardia e della polemica civile, soprattutto con i numeri della rivista "Bollettario"; anche questi suoi limerick, apparentemente giocosi, supportano una tendenza combattiva. Salentudine è un titolo che richiama la nostalgia dell'"originario", ma la sua chiave è affatto ironica. Il ritorno alla propria terra è debitamente straniato da una forma che non c'entra per niente. Aggiungerei questa riflessione: se il limerick risulta oggi un genere apprezzato al di fuori della sua specifica tradizione, credo che il motivo stia nel suo legame con il luogo: la regola prevede cinque versi rimati e l'identificazione di un personaggio identificato soprattutto dal nome del paese da cui proviene. Tuttavia la "localizzazione" diventa la strada per giungere al lato opposto, quello dell'accostamento contraddittorio e improprio, e del salto nell'insensatezza. Ecco allora che, nei nostri tempi di localismo spinto e di nuovo campanilismo (in una parola, di "rifeudalizzazione"), il limerick torna buono a far cozzare insieme territorialità e assurdità. È proprio così in Salentudine, anzi, ancora di più: la scelta dialettale di Nadia Cavalera porta dritta verso le radici (e il libro, con la sua logistica, compone una mappa dettagliata della regione), mentre il genere "straniero" rende estraneo tutto - soggetti e gesti, ruoli e proprietà, suoni e significati - con l'esito di una rappresentazione sempre tesa, sorprendente ed abnorme.