"Consumi, estetica e estesia" è stato il tema trattato da Paolo Fabbri nel pomeriggio di venerdì 21 settembre presso lo splendido giardino del Melograno. Ha citato in apertura il pensiero di S. Agostino il quale sostiene di sapere che cosa sia la felicità sino a quando qualcuno non gli chieda di spiegarla. Non si è, a volte, felici senza motivo? Forse solo perché il tempo è bello e tutto è illuminato dal sole? Aristotele nell’Etica Nicomachea sostiene che c’è una parte di bene nel solo fatto di vivere; il sentimento di vivere, il patos di vivere è una gioia in sè. La gioia è diversa dalla felicità, così come occorre distinguerla dalla contentezza (la parola ci rimanda a contenitore, contenuto e si prova con la soddisfazione di un bisogno). Tutte le passioni hanno tra loro un ritmo diverso: l’angoscia, la vendetta, la paura hanno ad esempio tempi lunghi; la contentezza è breve; la gioia ha un ritmo irregolare; la letizia è più costante. La gioia ci rimanda al piacere dell’esistenza, gioire è un verbo intransitivo. Chi è depresso spesso comprando un oggetto riesce a consolarsi, la gioia ottenuta in questo modo si calcola sull’oggetto, invece la gioia di vivere è povera. Questa gioia ci mette in contatto con gli altri? E’ possibile condividerla? Dividere il piacere di un consumo è facile, ma nella gioia non c’è forse una crudeltà che esclude gli altri? La gioia basta a se stessa, mentre la felicità può essere condivisa, la gioia no. Le passioni sono state pensate in qualche misura equilibrate, a ciascuna passione dovrebbe corrisponderne una contraria, ma ci sono passioni per cui è difficile trovare il contrario. Se alla gioia si oppone la tristezza quale delle due pesa di più? E’ possibile pesare la gioia? La contentezza intesa come soddisfazione sì ma nella gioia c’è un aspetto qualitativo difficilmente misurabile. La gioia conta di più o di meno dell’infelicità?
Anche il nostro modo di nutrirci è misurabile ad esempio calcolando le calorie che ingeriamo. Noi siamo le parole che pronunciamo, ma siamo anche ciò di cui ci nutriamo. Nell’azione di nutrirsi, l’oggetto si trasforma nel soggetto; chi mangia, mangia per sè, per costituirsi. Le cose non sono solo strumenti; quando ci nutriamo siamo noi che ci togliamo la fame; il nutrimento non è più esterno a noi e mentre ci togliamo la fame godiamo. Mangiare è partecipare di qualcosa che non si limita solo al suo sfruttamento d’uso e consumo. Qualcosa di simile accade anche quando facendo un bagno in un mare limpido ci abbandoniamo al piacere delle sensazioni che proviamo: non riusciamo a distinguerci dalla natura nella gioia di assaporare quel momento di piacere. E’ questa la ragione per cui, sostiene Paolo Fabbri, qualunque sistema politico o qualunque intellettualismo voglia sottrarci al contatto con gli elementi naturali è destinato a fallire. La gioia dell’elementare è immersione senza esteriorità. Cosa vuol dire non essere separati dalle cose? La beatitudine ha un oggetto contemplativo, ammette l’infinità, la presuppone, mentre la gioia è diversa, non è beata, non è intellettuale, non è finita (sarebbe la contentezza), è un’esperienza che sta tra il finito e l’infinito.
La gioia non ammette l’infinito, o meglio è al presente. Si può godere anche senza utilità. Spesso quando consumiamo un oggetto non riusciamo a godercelo perché siamo ossessionati dall’idea che stiamo rinunciando a tutto il resto: siamo in vacanza al mare e pensiamo a quanto sarebbe stato bello andare in montagna! La gioia si trova tra l’istinto e la razionalità. Esiste una verità eterna e profonda dell’eudemonismo: nella sensibilità c’è una fonte di godimento e gioia. Anche Cartesio ammette che ci sono forme di sensibilità che non diventeranno mai idee chiare e distinte. L’uomo nello stato di gioia è egoista, non nel senso di essere separato dalla natura, ma si trova in uno stato a cui gli altri non possono accedere. Lo stato della gioia è però un momento utopico che ricordiamo o anticipiamo. Due momenti non si ripeteranno mai uguali, la seconda volta sarà sempre diversa dalla prima: la gioia provata in una determinata situazione il più delle volte non si ripete, o comunque è diversa. Fabbri conclude il suo intervento sostenendo che occorre pensare di più e meglio al momento della separazione tra soggetto e oggetto e calcolare. Occorre vedere quanto gli oggetti sono investiti di soggettività. Il corpo umano ad esempio è un oggetto che fa parte del mondo ma è anche soggetto. Occorre poi distinguere tra il corpo e la carne. La carne è più vicina al mondo elementare.Se separiamo il soggetto dall’oggetto parleremo sempre di sfruttamento. C’è una gioia, un piacere legati al consumo, ciò avviene quando entriamo in un rapporto di partecipazione con l’oggetto. Gioia ha la stessa radice etimologica di gioco, questo ha delle regole,che servono per creare situazioni inattese, divertenti. Anche la parola agio è vicina a gioia. Resta aperta una domanda: è possibile creare condizioni per provare gioia? Più si è capaci di sperimentare la gioia più occasioni si creano per viverne ancora. Modena, 22 settembre 2001
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martedì 9 ottobre 2001 1.36.27