Non è difficile a chi per mestiere “racconta pensieri”, ricordare, a margine di un convegno sulla felicità, che il più sconsolantemente lucido dei filosofi moderni affermò che «Fortunato abbastanza è colui al quale resti ancora da accarezzare qualche illusione che lo volge al fare» [Schopenhauer 1963: 136], mosso dall’illusione che l’agire possa alla fine condurci ad una meta tanto agognata quanto effimera. L’agire è tam qualis, nella sua evenemenzialità, nel suo essere evento, ha quindi una natura fenomenologica. To phainòmenon, participio sostantivato dalla radice del verbo phaìnesthai significa “essere visibile”, “apparire” “mostrarsi” e, nella sua accezione difettiva, indica “ciò che sembra”, “ciò dà l’impressione”.
L’agire è, nella sua natura più squisitamente sociologica, un volgere-verso, un’“inclinare verso l’altro” oltrepassando il confine astratto della propria ipseità. Già gli epicurei indicarono nel clinamen lo stesso movimento che sposta gli atomi dalla propria traiettoria producendo la declinazione dalle rette perpendicolari e parallele in cui transitano. Un declinare, quello del parénklisis, caratterizzato dall’imprevedibilità. Esso infatti non ha causa e può darsi in qualsiasi momento. Perciò stesso rappresenta la rottura, l’elemento di contingenza e di indeterminazione, ma anche il fondamento delle aggregazioni che consente agli uomini di sottrarsi ad ogni legge di necessità, ad ogni determinismo dando vita alle possibilità della libertà. Simmel accoglie l’ipotesi epicurea quando afferma che «l’azione reciproca sorge sempre da determinati impulsi o in vista di determinati scopi» [Simmel 1989: 9]. Ma è proprio lo scopo ad essere scelto, indicato e poi sospirato e agognato senza la necessaria riflessione. Ed è qui che si compie l’inganno per il quale l’agire dovrebbe renderci felici poiché, afferma un detto popolare «chi non risica non rosica». E, del resto, non siamo forse «macchine desideranti»?
E, allora, la pace e la guerra divengono propaggini della stessa tensione-verso, in un movimento perpetuo che proprio nel suo estenuante vorticare ci impedisce di fare la sconsolante esperienza del vuoto o, eleaticamente del “non”, dell’essere nulla proprio nell’incapacità di coltivare quell’unica forma del vivere che invece ci garantirebbe consapevolezza e chiaroveggenza: il pensiero.
E allora, «quando tutti si lasciano trasportare senza riflettere da ciò che tutti gli altri credono e fanno, coloro che pensano sono tratti fuori dal loro nascondiglio perché il loro rifiuto di unirsi alla maggioranza è appariscente, e si converte per ciò stesso in una sorta di azione. In simili situazioni di emergenza la componente catartica del pensare (...) si rivela, implicitamente, politica» [Arendt 1999: 288]. Pensare se stessi e pensare il mondo racchiude nel duplice movimento di introflessione verso la zona silenziosa della coscienza e di estroflessione verso quella rumorosa della vita politica il principio dell’autopoiesi. Implica l’osservazione e la partecipazione vigile a ciò che ci sta intorno senza che la stessa onda ci travolga. Pensare è innanzitutto interrogarsi: con il ti estì ha avuto inizio l’interrotta, secolare riflessione sulle cose del mondo, con il chi siamo e dove vogliamo andare non può che continuare. Dove non vi è riflessione non vi è neppure la coscienza del non poter essere felici e ciononostante do essere degni di una “vita buona”. Infatti, offuscato dal velo della mãyã l’individuo «vede soltanto il fenomeno, nel tempo, nello spazio, nel principium individuationis. Con una conoscenza così limitata l’individuo non scorge l’essenza delle cose, che è una; vede soltanto le apparenze, isolate, separate, innumerevoli, svariatissime, e persino opposte. Gli pare quindi che la voluttà sia una cosa e il tormento un’altra; il tal uomo gli sembra un carnefice o un assassino, il tal altro un martire o una vittima; qui c’è il delitto, là c’è la sofferenza. Gli pare che la voluttà sia una cosa e il tormento un’altra; Vede che certuni nuotano nell’abbondanza e vivono fra le gioie e i piaceri, mentre fuori dalla porta altri muoiono fra le torture del freddo e della fame» [Schopenhauer 1963: 221]. Il pensiero è l’origine delle azioni che perdono la loro inconsapevole esuberanza, il loro criterio maggioritario, perché «assistere con un certo grado di consapevolezza al processo che ci divora» [Zambrano: 2000: 8], significa pure averne coscienza e annientare quella stessa «notte (della coscienza) in cui tutte le vacche sono nere».
Ciò che separa l’agire ripetitivo dall’agire vigile è proprio la scelta che si compie nella riflessione. E’ la scelta del paria che non canta nel coro ma che è in grado di rintracciare i livelli di quella eudaimonia che è anche sofrosyne.
Perciò scriveva H. Arendt «...l’incurante superficialità o la confusione senza speranza o la ripetizione compiacente di “verità” diventate vuote e trite - mi sembra tra le principali caratteristiche del nostro tempo» Così scrive nel prologo di una delle sue opere più lette H. Arendt. «Quello che io propongo, perciò, è molto semplice: niente di più che pensare a ciò che facciamo» [Arendt 1999: 5].
Scriveva Eraclito «agli uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo» [Eraclito 1969: DK 22].
Se tutti gli uomini pensassero non vi sarebbero più né vittime né carnefici, né Serbi né Croati, né Israeliani né Palestinesi, né Afgani né Statunitensi. «Quando tutti si lasciano trasportare senza riflettere da ciò che tutti gli altri credono e fanno, coloro che pensano sono tratti fuori dal loro nascondiglio perché il loro rifiuto di unirsi alla maggioranza è appariscente, e si converte per ciò stesso in una sorta di azione. In simili situazioni di emergenza la componente catartica del pensare (...) si rivela, implicitamente, politica» [Arendt 1999: 288].
Bibliografia
Arendt H. (1999), Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano [ed. orig. 1958].
Schopenhauer A. (1963), Il mondo come volontà e rappresentazione, Einaudi, Torino (ed. orig. 1818).
Simmel G. (1989), Sociologia, Comunità, Milano (ed orig. 1908).
Zambrano M. (2000), Persona e democrazia. La storia sacrificale, Mondadori, Milano (ed. orig. 1958).
correlati:
ultimo aggiornamento:
sabato 27 ottobre 2001 14.00.52