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NO ALLA GUERRA - SEMPRE E COMUNQUE

Nevio Gàmbula

Ciò che resta della critica

Afghanistan 7 ottobre 2001


E così ci risiamo, dentro la guerra, in fondo "solo" la terza negli ultimi dieci anni, ed è come se tutti noi, anche se non noi direttamente , come soggetti singoli, ma tutta l'umanità, non aspettassimo altro. Si leggano e rileggano i quotidiani, si ascoltino i commenti dei nostri concittadini e dei cittadini di tutto il mondo, e sarà così semplice notare l'interventismo come senso comune, l'assolutizzazione della risposta militare come unica giustizia. La critica si è ritirata in buon ordine dietro le bandiere dell'industria bellica. Anche la stessa parola "guerra" non fa più paura. Preoccupa, certo, perché in fondo si porta dietro un po' di timore per la tranquillità perduta, ma è diventata "la" necessità primaria - pena l'arretramento ad una barbarie sconosciuta. D'altra parte, come ben dimostra la storia, la guerra è il nostro "destino" - la conclusione illogica della sottomissione di tutto il mondo al "dominio del capitale". La "globalizzazione", tanto per essere chiari, non può essere tale senza il "controllo". L'uso della forza è il tentativo di "mettere pace" nel corpo della società, sempre in bilico tra una emarginazione sempre più frustrante e una voglia di porvi rimedio. La "pace sociale", necessaria al buon svolgimento degli affari, implica la guerra totale. Vi è dunque, oggi, non più, come usava dire una volta, una "tendenza alla guerra", ma la guerra realizzata, punta terminale di un processo cominciato dopo il secondo conflitto mondiale (Corea, Vietnam, etc.) e avente come centro il dominio economico (e culturale) degli USA - la terza guerra mondiale è in atto da allora, nella forma di un stillicidio di guerre locali, e prende oggi la forma delle operazioni di "polizia internazionale" (prima con il tentativo contro l'Iran, poi contro l'ex alleato Iraq, fino ai Balcani e, oggi, all'Afghanistan). Il mondo è stato aggredito - e alla fine il mondo ha ceduto. Siamo tutti americani (nel senso che siamo tutti sottomessi alla politica imperiale degli USA). New York ha perso la sua integrità - ed ecco che la globalizzazione (anche del terrore) si è "finalmente" conchiusa. Dall'11 settembre tutto il mondo è paese. Lo sceriffo del paese si chiama Bush. Certo, in molti, nel paese globale, sono scontenti, e molti tra gli scontenti non esitano a indicare gli stessi USA come causa del loro malessere. E questo è sicuramente un bene. Ma è anche un rischio, nel senso che è facile che questi molti, senza prospettiva reale di "abbattere" lo strapotere dello sceriffo e dei suoi vice, si daranno a battagliare con "forme eclatanti" senza rendersi conto non solo della inutilità di quelle pratiche, ma anche del loro oggettivo favorire gli stessi nemici contro cui vorrebbero ingaggiare battaglia. Bisognerebbe calare sul tavolo l'asso di una nuova organizzazione sociale, in cui tutti gli scontenti si alleano per fare in modo che i "felici pochi" smettano di essere tali - a partire, ovviamente, dall'analisi seria di quali meccanismi permettano al 14% della popolazione mondiale di godere di oltre l'80% delle risorse e della ricchezza (bisognerebbe, insomma, riparlare apertamente dei rapporti di proprietà). Ma non siamo pronti, l'umanità non lo è. Insomma, i tempi sono bui, in tutti i sensi. La "globalizzazione" (che è globalizzazione del capitale, è bene ricordarlo) non è che questo: un grosso business in un mondo pronto ad esplodere. Ed è anche - il mondo globalizzato - un corpo malato. Sintomi della malattia sono i terrorismi, ma anche i movimenti sociali che ogni tanto fanno irruzione sulla scena, da quello argentino a quello no global. La malattia può mettere in crisi il "nuovo ordine mondiale" a guida USA, ed ecco che allora è bene (per loro) dotarsi di strumenti atti ad intervenire ogni qualvolta l'ordine sia messo in dubbio: oggi tocca ai "fanatici" integralisti, domani … domani toccherà a quanti oseranno operare per la disgregazione di quel sistema di potere. La repressione di Genova, a confronto con quella che si approssima, sarà ben piccola cosa. Chi, da oggi in avanti, oserà affrontare il problema della "pace" verrà sottoposto ad una serie di insulti, uno più terribile dell'altro, e forse tornerà di moda una accusa oggi riposante in qualche meandro del Codice Penale: "disfattismo". E sì, perché nella guerra di oggi anche le "nostre" navi solcano i mari, sulle terre lontane gli stivali made in Italy lasceranno l'impronta e il crepitio delle mitraglie italiche farà da sfondo alle lacrime di popoli "nemici" - insomma, noi che ci opporremmo alla guerra di oggi saremo chiamati "disfattisti", perché faremo di tutto affinché la partecipazione italiana a quella guerra cessi. Disfattismo. Secondo il dizionario Devoto-Oli è disfattista l'atteggiamento "di irriducibile sfiducia nei confronti della classe dirigente e delle direttive da questa emanate". Lo saremo mai abbastanza?
Non c'è alternativa: prendiamo atto di vivere in uno stato di guerra. Qui, e in tutto l'Occidente, da domani in avanti dovremmo parlare come in un territorio nemico (il nemico ha la nostra stessa faccia, è benevolo, eppure vigilante e feroce; è democratico, però ha il colpo in canna). Viviamo in una regione occupata. La NATO è tra noi, la CIA ci spia, lo Stato ci osserva, la DIGOS è dietro l'angolo. Si imporrà la legge di guerra. Dovremmo pensare (e agire) in dissidio con la legge. Il "nazionalismo bellicista" risorgerà in forme nuove, adatte ai tempi globalizzati, e integrerà tutto a sé: ogni pensiero, ogni cultura, ogni spettacolo obbedirà agli ordini delle gerarchie militari. Tutto sarà reso sfuocato, e saranno capaci, i creativi del marketing bellicista, di far passare lo stato di guerra come una normalità. Gli altri, i contrari, vivranno in una situazione di "segregazione" perenne. Oh certo, non avranno bisogno di ripristinare il confino o i forni crematori, la "democrazia" è in grado di fare meglio: omologa tutto ai poteri esistenti, annichilendo ogni senso critico, e i pochi che resisteranno avranno la possibilità di strillare in appositi recinti. Ecco, bisognerebbe, superato il disagio di questi istanti, operare per evidenziare le sbarre rese invisibili con astuzia e con il consenso generale. Il nostro compito è mostrare le sbarre. Spezzare l'armonia con la società costituita, per una società costituente. Anche a partire dallo specifico letterario o artistico (con, in più, la coscienza che il solo impegno nello specifico non basta, non può bastare: bisogna avere la forza di uscire dalla gabbia delle parole per farsi corpo in opposizione). Altrimenti, lo si voglia o no, saremo anche noi complici, perché se accettiamo l'integrazione a questo sistema di guerra (alle sue farse elettorali, alla sua finta democrazia, ai suoi spettacoli dementi) finiremo dietro le sbarre invisibili senza saperlo.

20 novembre 2001
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ultimo aggiornamento: mercoledì 21 novembre 2001 1.56.46
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