Lei segue per il botto al Viminale la pista “anarcoide insurrezionalista”. Io le scrivo come letterato anarcoide insurrezionalista. Non uso bombe e, d’altra parte, non ho nulla da spartire con i nannimoretti e i così detti intellettuali di sinistra. Che vuol dire “anarcoide”? sulla sua bocca sembra una degradazione lessicale ammiccante (ai suoi elettori) di anarchico (quelli in tabarro nero e viso austero). Il termine “degradato” le serve per suggerire l’acclaramento della violenza bombista, ora invisibile, dei black bloc e dei cattivi del “Movimento dei movimenti” (Seattle-Genova-Porto Alegre). Per me anarcoide significa essere anarchico a modo mio: nel pensiero, nel lavoro, nel destino di stalker (veda il film di Tarkovskji) e di bandito: fatto fuori dal cerchio del potere (l’ho voluto io) e della comunicazione. E insurrezionalista? Glielo spiego in breve: ritengo che il Movimento dei movimenti, al quale aderii tra i primi in Italia, sia reale e utopico allo stesso tempo, e che questa sconnessione lo porti a non poter mantenere ciò che ingenuamente promette: la possibilità di “un altro mondo”. Sostengo che esso mondo sia impossibile se non viene costruita una nuovissima forma politica e plurale della rivolta globale. Sostengo inoltre, Scajola, che il governo in cui lei serve da ministro, è il peggiore dei G8 e il più esemplare dell’osceno terrore politico-finanziario che amministra il mondo (la specie&la terra).
Io non metto bombe, Scajola, e non faccio i girotondi della sinistra, insegno piuttosto ai giovani a “cominciare a capire” in quale mondo-inferno (legga Le città invisibili di Calvino per capire meglio) sono capitati e a prepararsi a rivoltarlo, se vorranno. Così come gli umanisti che seguono il suo corteo li istruiscono a pensare che questo è il migliore dei mondi reali. Sono un letterato anarcoide insurrezionalista, Scajola. Discuta con me. Non ho armi, né alleanze e compagni. Ci provi. Dal suo interno.
1 marzo 2002
Scansatelo
Il libro offre un rapido miscuglio di “percorsi didattici” (quel blob che opprime da decenni docenti e ragazzi) sulla letteratura dell’immigrazione. Di cosa parliamo? Non si sa. La letteratura dell’immigrazione è un entità sulla quale si pattina e attraverso la quale si vuole aprire una via all’educazione interculturale. Ottima intenzione, ma ciò che sembra muovere gli autori è piuttosto un atteggiamento di esotismo sociologico “vu cumprà” buonista da primi anni 90. La “letteratura” viene inopinatamente e brutalmente usata per illustrare l’avvio ad una società interculturale in Italia. Una questione trattata con testi datati, africani e medio orientali, senza alcun accenno ad europei o asiatici. I curatori ignorano che da anni gli scrittori stranieri, rifiutano la definizione di “scrittori immigrati”, come una recinzione esotistica-razzista. Del dibattito critico italiano e mondiale a fianco agli scrittori migranti, i curatori mostrano di non sapere nulla. Divulgatori poco informati iniettano nella scuola italiana un “supporto didattico” che ignora per giunta i veri scrittori italiani della migrazione: da Julio Monteiro a Christiana de Caldas Brito, da Jarmila Ockayova a Yousef Wakkas a Gezim Hajdari. Anche se si tratta dell’unico “supporto didattico” per ora in circolazione, scansatelo.
Parole di Babele. Percorsi didattici sulla letteratura della immigrazione, a cura di Davide Rigallo e Donatella Sasso, Loescher 2002, pagine 149, euro 10,50
ultimo aggiornamento:
domenica 19 maggio 2002 19.17.51