versione telematica di ''Bollettario'' quadrimestrale di scrittura e critica. Edoardo Sanguineti - Nadia Cavalera
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CE.STA. - CENTRO STAMPA
"Avanguardie a Napoli"
Francesco Muzzioli
Karenina.it - 2001
Sappiamo bene, che è proprio dai più acuti stati di crisi, dai nodi più intricati, dai “punti di rottura” che possiamo valutare con maggiore chiarezza i problemi che ci riguardano tutti. Proprio così: la realtà che può colpirci e spingere in avanti la nostra riflessione è quella che ci viene incontro dalle zone più toccate dal disagio, dove più chiaramente emerge e si fa emblematica la contraddizione reale. Per stare al panorama italiano, l’area napoletana, ad esempio: essa evoca subito — nel senso comune di massa — uno stato di illegalismo e di selvaggia cronaca nera, eppure proprio lì, per la forza di una dialettica degli estremi, si deve riconoscere uno dei nostri più avanzati “laboratori”, una interessantissima fucina culturale che ha prodotto (qui mi riferisco principalmente al mio campo, che è quello letterario) attività di assoluto rilievo, promosse da scrittori, gruppi, riviste (da “Terra del Fuoco” alla storica “Altri Termini”; e aggiungerei anche “Oltranza”, “Pragma”, “Risvolti”), con percorsi originali e non-allineati.
Una ricerca molto attenta e intelligente di queste operazioni artistiche e letterarie è stata compiuta da Roberta Moscarelli nel suo recente libro Lo cunto de la voce (Napoli, Terra del Fuoco, 1999) che torna alle radici delle avanguardie napoletane — il titolo rimanderebbe addirittura al classico Cunto de li cunti — e ne percorre la storia, dalla futuristica Piedigrotta di Cangiullo alle riviste e agli autori degli anni Sessanta e Settanta (con le personalità di Stelio Maria Martini e Luciano Caruso; poi Franco Cavallo) che hanno rappresentato linee collaterali, ma niente affatto secondarie rispetto al mainstream del Gruppo ’63. Arrivando ai giorni nostri, il discorso critico si confronta — com’è giusto — con la situazione generale: allora la particolarità napoletana, a fronte del complessivo orizzonte nazionale, viene a sprigionare le cariche di una forte «controtendenza». Tanto più in una «fase di stagnazione e di conformismo come l’attuale, Napoli è teatro di fenomeni di ricchissima creatività espressiva, caratterizzati da fisionomie diverse ma insieme da un’identità inconfondibile» (sono proprio le battute iniziali di Lo cunto de la voce). Ma anche e soprattutto rispetto agli stessi “miti” napoletani, sia quelli antichi del folklore (vitalità, ingordigia, astuzia, ecc.), sia quelli nuovi di un “rinascimento” che sa di bonifica, se pretende di riattivare le buone maniere senza pagare il prezzo di toccare gli squilibri sociali esistenti; anche rispetto a questi clichés la sperimentazione letteraria rifiuta le forme facili di “normalizzazione” e continua a battere le vie “disorganiche” dell’eccesso, della fluenza espressiva, della contaminazione “sporca” e, insomma, di un crudele esercizio di ricerca nelle zone del “rimosso”.
Del resto, leggiamo nel libro, quello napoletano è «un contesto tutt’altro che tollerante e pacifico, anzi, il conflitto è tale da generare spesso una sorta di cacofonia, un surplus espressivo». Non per niente il titolo di questo Cunto ha per oggetto/soggetto la “voce”: l’oralità, quindi, come momento di dizione irregolare e rapsodica e come insopprimibile presenza corporea dell’autore; e “voce”, anche, proprio come individualità rilevata e insorgente.
Prese in questa ultima accezione, le “voci” poetiche sulle quali la Moscarelli concentra la propria attenzione critica sono soprattutto quelle di Carmine Lubrano e di Mariano Bàino. Poiché questi due autori hanno da poco dato alle stampe delle nuove pubblicazioni, ecco l’occasione per saggiare ulteriormente le direzioni e il carattere delle estreme avanguardie napoletane.
Carmine Lubrano, l’animatore delle edizioni di “Terra del Fuoco”, ha edito, nel 1999, un bizzarro libro di testi, figure, partiture e fotografie (opera queste di Peppe Del Rossi) che documenta l’incontro con Edoardo Sanguineti (presente con sue poesie) nello scenario della solfatara di Pozzuoli. Il titolo è, appunto, Sulphitarie. Fumi “infernali” per due autori sulfurei e proclivi, in ritratto e in verso, a espressioni “sghimbesce” e alternative. Il fou rire di Sanguineti, lanciato nelle sue acrobatiche paronomasie e nelle sue acri demistificazioni incontra il plurilinguismo di Lubrano, teso a immettere il dialetto in una forma poetica surreale e sincopata, per tradurre in mimica verbale tutta la sua energia conflittuale, la sua irruenza “indecente”.
Che la caratteristica di Lubrano sia quella di un flusso che trasporta i materiali linguistici «senza rispettare — come scrive la Moscarelli — distanze di sicurezza né principi di non interferenza, stravolgendo, facendo impazzire e mettendo in crisi la funzione referenziale della lingua, per aggredire direttamente il potere di persuasione e di dissuasione della parola ragionevole/autorevole», lo possiamo riscontrare anche dal libro-disco che l’autore ha prodotto con la collaborazione musicale del contrabbassista Rino Zurzolo (Terra del Fuoco, 1999). Anche questo PoemAverno, come Sulphitarie, contiene subito nel titolo il riferimento a un paesaggio infernale: esso rimanda da un lato, all’antico mito “sotterraneo” legato ai luoghi di casa; dall’altro lato fa da allegoria alla negatività dell’esistente. Così, il partire dalla propria particolarità (il “cominciare da dove si sta”) non partecipa di tanti attuali localismi chiusi e consolatori, né dalla percezione del male che ci circonda consegue la dimissione dell’intervento del soggetto-artista o l’accettazione delle pratiche in voga. Ciò che produce l’accostamento tra la “poesia” e l’“Averno” è un “corpo a corpo con la lingua”: scorrendo l’indice che annovera Napule canta, cavallo di battaglia di Lubrano e autentico guanto di sfida agli stessi luoghi comuni della napoletanità e all’enfasi della miseria, qui debitamente straniati; troviamo lo Spot (già compreso nell’antologia di lotta I poeti contro Berlusconi), la cui polemica contro le degenerazioni spettacolari della politica italiana, con il suo corteo di «scarrafune» e «zoccole», non ha smesso purtroppo di essere attuale; si passa attraverso l’omaggio a Emilio Villa (grande sperimentatore isolato e spesso misconosciuto, che è stato importante riferimento dell’area napoletana), in un brano che è forse meno agitato e pluringuistico, ma che procede con la cadenza lunga della Letania, —riprendendo una analoga Letania, scritta da Villa per Carmelo Bene — ad analizzare e verificare tutto un repertorio mitico e immaginario, per avviarlo a soluzioni nuove e impensate; fino a giungere agli strappi e alle volute della Canzona interrotta conclusiva. Nelle diverse tappe, Lubrano mette in opera le varie frecce del suo arco che sono: il recupero del dialetto (come rimosso storico e corpo estraneo); il pathos civile e l’istanza politica; l’immaginario erotico e crudele. La stessa tendenza alla “voce”, che spinge l’autore qui a utilizzare il supporto della registrazione e ad avvalersi del corrispettivo di dissonanze musicali, non è un ripiego dovuto alle odierne difficoltà della poesia a pubblicarsi e diffondersi in libro, ma un attivo contrattacco che rilancia le chances espressive sperimentando l’impatto di canali più diretti di comunicazione.
Quanto a Mariano Bàino, è da poco uscito da Piero Manni (Lecce, 2000) il suo libro Pinocchio (moviole). Siamo di fronte alla prova più consapevole e di largo raggio di questo autore che più neanche ha bisogno di tenersi al “ggeniuslò” napoletano, ma prende di mira una figura-cardine della cultura letteraria nazionale, una figura “di formazione” come Pinocchio, in un confronto che diventa anche contaminazione dei generi della poesia e della prosa. L’oggetto, già sottoposto a una serie infinita di riprese e riscritture (e altre ancora se ne annunciano), sembrerebbe del tutto consumato e non in grado di sopportare nuovi restauri: ma Bàino riesce nella scommessa costringendo la sua vena ironica e parodistica ad un inusitato tour de force. Vincente è la capacità di porre la scrittura a diverse distanze dall’ipotesto: e quando va più vicino al testo di origine e sembra farne una versione quasi fedele; e quando si allarga immettendo citazioni allotrie in un complessivo intreccio intertestuale; e quando si sposta ancora un altro po’, alle spalle di se stesso, nelle prose-cornice, per fare la critica e autocritica dei limiti e delle difformità della stessa operazione “neocollodica”; e quando, poi, accosta al rifacimento le voci esterne, da parlato infantile, di quelli che dovrebbero essere gli attuali piccoli lettori della favola.
A sostenere l’operazione di Bàino sta certamente il valore archetipico di Pinocchio (che fa concludere a Leonetti, nell’introduzione al libro: «Difendiamo e sosteniamo il nostro essere-pinocchio»), ma viene ad assumere un peso determinante la gestione dei generi di scrittura: il libro, infatti, non è una raccolta di brani autonomi, ma neppure — per quanto incentrato su un unico personaggio — un vero e proprio poemetto narrativo; è, piuttosto, un “conglomerato” di forme, che si sovrappongono e si riferiscono l’una all’altra con tensione reciproca, dislivelli di punti di vista (come dicevo), diversi “respiri”, addirittura una diversa disposizione sulla pagina (orizzontale o verticale), che, forse, coincidono con le diverse velocità delle moviole indicate dal sottotitolo parentetico.
Dunque una sorta di “Pinocchio di meno”, in cui l’omaggio al passato è tutto in funzione dell’attuale scontro con le configurazioni semplificate o confuse dell’immaginario mercificato. Incontrandosi con la “renitenza” napoletana, la riottosa indisciplina di cui è portatore il burattino di legno, si esercita e si esalta nei mille rivoli di un’invenzione sempre dinamica, sempre pronta ad ogni svolto di sezione a mettere in discussione e rinnovare le proprie scelte stilistiche.
Per altro, la vitalità della scrittura, che gli autori operanti attorno a Napoli rappresentano in questi modi “radicali”, è qualcosa che attraversa anche altri centri italiani e forse sta aspettando il momento di cominciare a collegarsi in una “rete dal basso”. Spesso i “contagi” delle tendenze — sebbene l’informazione ufficiale li cancelli, per ignoranza o per calcolo — sono più veloci che si pensi.