Le confessioni di un materialista
non pentito arrivato a settant'anni tra critica e poesia
di ANTONIO GNOLI
Genova. Professor Edoardo
Sanguineti, da dove vuole che cominci questa intervista: dai suoi settant'anni o
dal libro che è in uscita? "Per caso le due cose vengono a coincidere. Anche se
il libro esce un po' prima e il compleanno è a dicembre".
Il libro si intitola Il chierico
organico, è edito da Feltrinelli. E' una sorta di storia degli
intellettuali. Ha senso ancora parlarne?
"C'è nel libro - che ha curato un mio
allievo, Erminio Risso - un sapore gramsciano che a me non dispiace.
Naturalmente so bene che una certa immagine dell'intellettuale è finita".
Che senso ha allora riproporne il
dibattito, in cosa spera?
"Sono convinto che tutto si leghi a una
grave perdita della coscienza di classe".
Oddio, proprio la classe tira fuori, ora
che sono saltati tutti gli schemi, le appartenenze.
"Crede davvero che i Berlusconi, gli
Agnelli non sappiano di appartenere a un gruppo sociale definito? La
consapevolezza si è persa solo fra i lavoratori".
Che cosa ha fatto saltare i meccanismi
identificativi?
"Banalmente, la caduta del socialismo
reale ha comportato un atteggiamento critico tra gli intellettuali e i
lavoratori. E' svanito un equivoco, ma al tempo stesso è crollato un punto di
riferimento". Fa
impressione la velocità con cui si sono consumate certe posizioni.
"Tutto è accaduto in modo
sorprendente". Quella cosa
lì, che chiamiamo comunismo sovietico, sembra appartenere a un'altra era.
"La svolta è stata epocale. Un
crollo verticale e rapidissimo, e un insieme di effetti a catena: via i partiti,
gli intellettuali, le idee. Mi fermo per carità di patria".
Questa storia in alcuni ha prodotto
disorientamento, in altri rassegnazione, in altri ancora l'idea che comunque la
vita continua. Lei come ha vissuto il fallimento?
"Ho cercato di pormi in una posizione
diversa: né quella di chi dice torniamo al nostro lavoro come se non fosse
accaduto nulla, ma neppure quella di cancellare il proprio passato".
Non si pente.
"Perché dovrei?".
Se non altro per il fallimento di una
idea colossale e terribile.
"La storia è andata come tutti sappiamo.
C'è qualcosa di irrimediabile in quello che è accaduto. Ma il punto è capire che
cosa possiamo fare adesso".
Beh, non può mettere tra parentesi tutto
quello che c'è stato e dire adesso ricominciamo.
"No, io penso esattamente il contrario.
Sulla mia esperienza agisce in maniera decisiva il fatto che compio
settant'anni. Ho visto con i miei occhi quando Mussolini venne a Torino. Era il
1936, ero un ragazzino, lo ricordo a Palazzo Campana che si affacciava dal
balcone. E ho visto le SS. Per fortuna ero giovane e il destino ha voluto che
arrivasse la liberazione. Non pensa che tutto questo abbia avuto un peso nella
mia esperienza? Allora perché dovrei buttarla via?".
L'impressione è che lei per problemi di
coerenza cerchi di salvare pezzi di un discorso andato in frantumi.
"Non ho nessun problema con la storia
passata, né intendo guardarla in termini unitari. Dico semplicemente:
riflettiamo sull'esperienza attuale. E niente spiega meglio il mondo di oggi di
una visione materiale delle basi dell'esperienza".
Il suo cavallo di battaglia resta il
materialismo storico. "Per
me rimane ancora un punto di riferimento. Meglio, l'unico modo per cercare di
decifrare il reale. Operare alla luce di questo metodo, ha anche un valore
politico". Questa sua
ortodossia è un modo per riaffermare un'identità perduta, dichiarare la propria
storia, o che cosa? "Non
parlerei di ortodossia perché tra l'altro non c'è più nessuno a cui rispondere.
La parola aveva un senso in passato, quando indicava un certo modo di essere
militanti". Un certo stile
di vita... "Ma non solo,
era anche il riconoscimento che esistevano delle autorità a cui fare
riferimento". Le resta, lei
dice, il materialismo storico. Cioè Gramsci, al quale mi pare si sente
particolarmente legato.
"Non solo, c'è anche Benjamim".
Due personaggi molto diversi, come
fa a tenerli assieme?
"Intanto c'è una sostanziale
contemporaneità. Nel loro periodo falliscono le socialdemocrazie e trionfa in
Europa la reazione. Consideri che sono due personalità molto chiuse e
tormentate. Entrambe, di fronte a una sconfitta storico politica, reagiscono
gettando il loro sguardo critico oltre la contemporaneità".
Sicuramente hanno uno sfondo comune, ma
i loro percorsi sono molto diversi. Le tesi sulla storia di Benjamin sono
intrise di un profetismo che è estraneo a Gramsci.
"Non volevo appiattire l'uno sull'altro.
Ma Benjamin, per il problema che lei solleva, è stato oggetto di infinite
interpretazioni. Personalmente inclino a una lettura secolarizzata di questa
visione teologica. Ma c'è un'altra cosa..."
La dica.
"Finché è stato possibile hanno tenuto
fede alle loro idee in una sorta di disperazione terminale e le ragioni si
intuiscono. In Gramsci c'è il dissolversi, perfino fisico, della possibilità di
continuare. Ma fino all'ultimo ha cercato di fare il proprio lavoro. Così
Benjamin, che fino alla fine ha operato malgrado la fuga per il terrore di
finire nelle mani della Gestapo".
Mentre lei parlava pensavo: Gramsci e
Benjamin hanno riflettuto e teorizzato, ciascuno a suo modo, attorno al
materialismo storico. Ma il solo ad averlo messo in pratica è stato il
capitalismo. Non trova tutto questo paradossale?
"E' vero. Ma il materialismo di cui è
imbevuto il capitalismo è cieco per la completa assenza di prospettive.
Significa solo: fare soldi".
Tutta qui la filosofia del
capitale? "C'è stato un
tempo in cui contava. Ma oggi la filosofia del capitale non è più fatta da
grandi pensatori, ma dai direttori delle reti televisive, dai giornali, dagli
organizzatori pubblicitari, dai persuasori occulti. Girls e ballerine hanno
preso il posto degli intellettuali e dei professori".
E' anche per questo che ha lasciato
l'università? "A
settant'anni potevo anche rimandare il congedo. Ho preferito abbandonare, perché
sono un po' stanco per la piega che l'università ha preso".
Le rimane la politica.
"Anche lì ho già dato. Mi auguro
semplicemente di tornare a scrivere".
La sua scrittura ha un nemico: il
sublime. Lei detesta la bella frase. Perché?
"Perché questo è un paese di grande
retorica. C'è ancora chi pensa in stile ancienne régime. Sono per cose più
ostentamente prosaiche".
Anche nello stile c'è chi sta sopra e
chi sta sotto. "E' vero, e
nel sopra c'è tutto il dannunzianesimo, che è una forma di ideologia culturale,
oltre che estetica".
Morta?
"Non direi, c'è una sorta di
D'Annunzio-renaissance che ha preso corpo, e un ritorno al grande stile, alla
poesia alta, al lirismo pieno e alle parole innamorate".
E' uno dei motivi per cui continua a
detestare Pasolini? "Beh,
il suo estetismo, anche se rivolto alla miseria e all'orrore, una specie di
sublime del basso, era proclamato, confessato e in fondo coltivato. Pasolini era
un uomo in buona fede, ma io ho continuato a vederlo come un corruttore".
Allude alla sua
omosessualità? "No, alludo
al fatto che il suo anticapitalismo era pieno di nostalgie per un mondo perduto
e irripetibile". Non salva
nulla di lui? "Per me
rimane un personaggio perturbante. Mi colpì la sua autocritica: un uomo che
passa dal trionfo dell'eros e della felicità dei mondi primitivi a Salò è uno
che cerca di guardarsi dentro, per scoprire che cosa si agita nel suo
profondo". E' un modo di
tormentarsi... "E' anche il
modo in cui l'estetismo passa dal vitalismo estremo alla pulsione di
morte". Trovo ingiusta
l'accusa di corruttore.
"Forse lo vedo a torto come responsabile
di molti equivoci che hanno attraversato la nostra storia. Ma quel suo non star
bene da nessuna parte, quella volontà di essere eroico, quel suo sublime così
seducente per i giovani mi sono parsi molto svianti".
Lei è un critico, oltre che un poeta e
uno scrittore. Cosa pensa del modo in cui oggi la critica viene svolta?
"I recenti sviluppi - diciamo
quelli decostruttiveggianti - mi interessano sempre meno. A mano a mano che
passa il tempo mi sento sempre più isolato. Ho visto molte cose deperire e mi
domando fino a che punto appartengo alla normale categoria del vegliardo che
esprime solo il proprio pregiudizio amaro sul mondo".
E allora che fa?
"Faccio la tara sui miei pregiudizi
generazionali e mi tengo aggiornato. Nonostante questo l'effetto di isolamento è
notevole. Il che non mi toglie il gusto del fare, ma non ne aggiunge
nemmeno". E' un obbligo,
una necessità, come quello che notava in Gramsci e Benjamin...
"Perché mai, mi dico, dovrei cedere di
un millimetro quando quelli non cedevano di fronte a una realtà ben più
disperata e dura". Si sente
un eroe dell'odierna resistenza?
"Macché. Ho avuto un'esistenza
abbastanza comoda, non ho pagato nulla duramente, sono passato indenne
attraverso gli anni di piombo quando il terrorismo gambizzava, ho settant'anni e
sono semplicemente qualche passo più vicino alla morte".
E' un argomento al quale le capita di
pensare? "Sì, ma una cosa è
pensarla, altro è viverla. Anche se su questo ci tengo ad essere prudente.
Ricordo un episodio lontano. Dopo che lessi in pubblico un mio testo venne da me
un giovane che mi disse di avere imparato una cosa da quella lettura, e cioè che
non bisogna aver paura della morte. Io non so se davvero un messaggio del genere
sia contenuto nei miei scritti. Però se esistesse in qualche pagina sarei
felice. Sarebbe il segno che della morte si può parlare senza drammi".