Chiara Ferrari
Performance: teoria e prassi
“Una persona vede l’evento; essa vede se stessa che osserva l’evento; vede
se stessa mentre guarda altri che stanno osservando l’evento e che, forse,
vedono se stessi che osservano l’evento. Così abbiamo la performance, i
performers, gli spettatori e lo spettatore di spettatori; e il se che guarda
se stesso, che può essere performer, o spettatore, o spettatore di spettatori.”
[Richard Schechner]
“Performance è il dominio dello spettatore” (Richard Schechner, La teoria
della performance). Tale complesso fenomeno, che trova larga diffusione
a partire dagli anni Settanta, diventa il centro di un vasto movimento di
ricerche sperimentali volto a stabilire un contatto immediato tra l’interprete-autore
ed il pubblico, il quale è sottoposto alla simultanea fruizione di diversi
codici espressivi, spinto ad assumere una posizione fisica, psicologica,
quindi partecipativa rispetto all'evento che, infatti, mira a "produrre
sensibilità, umori, inquietudini, e non oggetti." (T. Macrì, Il corpo postorganico).
Come diretta conseguenza della meccanizzazione introdotta dai moderni
mezzi di riproduzione tecnica dell'arte, le arti performative si pongono
come evnto che si crea all'istante, unico e irripetibile, che ha come scopo
il sottrarre l'opera alla mercificazione. Ed è qui che la performance assume
un’importanza fondamentale nel rinnovamento della sensibilità estetica,
poiché, intervenendo sul rifiuto del convenzionale e istituzionalizzato
oggetto d’arte, si indirizza verso la produzione di “eventi”: “l’arte non
è un modo di imitare la realtà, o esprimere stati della mente, ma un evento”
(R. Schechner, La teoria della performance), che si compie e si ripete nel
“qui ed ora”, nel tempo reale della performance, evitando di rimandare a
nessuna altra realtà o significato, operando così in direzione dello scompaginamento
della categorie prestabilite “arte-vita”. In ciò sta il senso di un fare
arte che segna un confine labile e arbitrario tra finzione e vita quotidiana,
e che implica, da parte dello spettatore, lo “spiare attraverso” le differenti
categorie.
Da questa visione in movimento, complessa e stratificata, (lo “spiare
Attraverso”), deriva lo sconvolgimento delle dimensioni canoniche; di qui
il concetto di “liminalità” (“e che cosa è la liminalità se non la soglia:
lo spazio che contemporaneamente separa e unisce due altri spazi: l’essenza
dell’essere in-tra”, R. Schechner, Notizie, sesso e teoria della performance);
di “smobilitazione”, “salto dimensionale tra lo spazio-tempo della vita
e quello dello spettacolo.” (Renato Barilli, Lo spettacolo nell'età tecnotronica).
Tappe fondamentali verso l’affermazione della Performance come linguaggio
artistico autonomo sono già negli anni cinquanta, le contaminazioni prodotte
dagli Happenings e gli esperimenti della corrente Fluxus, artefici del rinnovamento
del senso e della dimensione del fare artistico.
Agli inizi degli anni Sessanta, è determinante l’esplosione della Body
Art, forma di creazione artistica caratterizzata dall’uso del corpo dell’artista
come oggetto di esercitazione, veicolo di comunicazione e unica forma di
linguaggio, medium di un processo performatico in cui domina la desacralizzaione
dell'opera d'arte in quanto fine ultimo e incarnazione di valori assoluti.
Se il quadro non corrisponde più da tempo alla modalità trainante del sistema
Dell’arte, ora non rimane all’arte che investire la corporeità di elementi
di significazione: “con la Body Art l’artista diviene opera d’arte, investe
il suo corpo di un rapporto oggettuale, si ridefiniscono le geografie corporali
(...) Il corpo diviene linguaggio assoluto, medium attraverso il quale l’artista
si trasforma, trasforma la propria immagine e la propria identità. Il corpo
diviene materiale plasmabile.” (F. Alfano MIglietti, Identità mutanti).
Il punto di arrivo di questo viaggio intorno all’espressività corporale
è la dimensione performatica degli anni Settanta, esibizione di azioni fisiche
spesso violente, crudeli e cruente, una sorta di “teatro della crudeltà”
(basti pensare agli esperimenti autodistruttivi degli Azionisti Viennesi,
già della metà degli anni Sessanta), specchio e immagine della crudeltà
del reale, che converge ora verso una dimensione tutta esistenziale: “non
è più la moltiplicazione di beni oggettuali che interessa il performer,
bensì la sua soggettività, il suo essere nel mondo.” (T. Macrì, Il corpo
postorganico).
Gli anni Ottanta e Novanta, segnano l’abbandono della dimensione ritualistica,
intimistica e soggettiva degli anni Settanta, e la performance si afferma
come dislocamento di corporeità, continua manipolazione, smaterializzazione
e rapporto con l’inorganico. “Post-human”, la mostra allestita da Jeffrey
Deitch nel 1992 annuncia l’era della corporeità manipolata e della reinvenzione
di una misura umana che deve fare i conti con l’avvento apocalittico e pervasivo
delle nuove tecnologie, prefigurando un radicale processo di ridefinizione
antropologica. In particolare il lavoro di artisti performer come Orlan,
Marcel.Lì Antunez Roca, Stelarc, è sorretto dall'ossessione forte e pervasiva
dell'essere corpo in mutazione, del produrre trasformazione identitaria
piuttosto che oggetto estetico.
A dieci anni di distanza, “Forms follows fiction”, sempre a cura di Jeffrey
Deitch, dichiara che “l’arte si è progressivamente spostata in un regno
in cui la Forma segue la finzione” (cfr. Form follows fiction, catalogo
pubblicato su Flash Art n.° 231), dove gli artisti (tra tutti Vanessa Beecroft)
realizzano opere che si intersecano con la vita quotidiana e così facendo
attraggono il pubblico in una zona di confine tra realtà e finzione, in
quella zona liminale che produce disorientamento e confusione per incapacità
di discernimento tra forma reale ed artificiale, tra arte e vita.
|